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Arena Uno: Mercanti Di Schiavi
Morgan Rice


Trilogia Della Sopravvivenza #1
Il bestseller con oltre 100 recensioni a cinque stelle su Amazon! New York. 2120. LAmerica ГЁ stata decimata, distrutta dalla seconda Guerra Civile. In questo mondo post-apocalittico, i superstiti sono pochi e radi. E molti di quelli che sono sopravvissuti sono membri di bande violente, predoni che vivono nelle grandi cittГ . Pattugliano la campagna alla ricerca di schiavi, di nuove vittime da portare in cittГ  per il loro sport mortale preferito: Arena Uno. Lo stadio della morte, dove i concorrenti sono costretti a combattere fino a uccidersi, nelle maniere piГ№ barbare. CГЁ solo una regola nellarena: nessuno sopravvive. Mai. Immersa nella natura, sulle Catskill Mountains, la 17enne Brooke Moore cerca di sopravvivere, rimanendo nascosta insieme alla sorellina Bree. Stanno attente a evitare le bande di mercanti di schiavi che pattugliano la campagna. Ma un giorno, Brooke non sta attenta quanto dovrebbe, e Bree viene catturata. I mercanti di schiavi la portano via, la conducono in cittГ , verso morte certa. Brooke, figlia di un marine, ГЁ stata cresciuta per essere forte, per non arrendersi mai in battaglia. Quando sua sorella viene presa, Brooke si mobilita, usa tutto ciГІ che ha a disposizione per inseguire i mercanti di schiavi e salvare sua sorella.





Morgan Rice

ARENA UNO MERCANTI DI SCHIAVI LIBRO #1 DELLA TRILOGIA DELLA SOPRAVVIVENZA




Chi ГЁ Morgan Rice

Morgan Rice è l’autrice bestseller di APPUNTI DI UN VAMPIRO, una serie per ragazzi che comprende al momento undici libri; è anche autrice della serie bestseller TRILOGIA DELLA SOPRAVVIVENZA, un thriller post-apocalittico che al momento comprende due libri; è anche autrice della serie fantasy epica L’ANELLO DELLO STREGONE, che comprende al momento quattordici libri.



I libri di Morgan Rice sono disponibili in edizione audio e cartacea, e le traduzioni dei libri sono disponibili in Tedesco, Francese, Italiano, Spagnolo, Portoghese, Giapponese, Cinese, Svedese, Olandese, Turco, Ungherese, Ceco e Slovacco (altre lingue in arrivo).



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Alcune Recensioni Positive di Morgan Rice

“Lo ammetto, prima di ARENA UNO, non avevo mai letto niente di post-apocalittico. Non ho mai pensato che potesse piacermi questo genere… E invece è stata una piacevole sorpresa scoprire quanto prende questo libro. ARENA UNO è uno di quei libri che si leggono fino a tarda notte, quando gli occhi cominciano a incrociarsi perché non riesci a metterlo giù… Non è un segreto che adoro le eroine forti dei libri che leggo… Brooke è tenace, forte, instancabile, e anche quando nel libro c'è del romanticismo, Brooke non si fa mai mettere sotto… Raccomando vivamente ARENA UNO. “

–-Dallas Examiner



“Rice è bravissima a trascinarvi nella storia fin dall’inizio, con una grande qualità narrativa che va ben al di là della mera descrizione… Ben scritto, ed estrememente scorrevole.”

–-Black Lagoon Reviews (su Tramutata)



“Una storia ideale per giovani lettori. Morgan Rice ha fatto un ottimo lavoro stupendo tutti… Nuovo e unico. La serie si concentra su una ragazza… una ragazza straordinaria!… Di facile lettura ma estremamente incalzante… Adatto ai minori.

–-The Romance Reviews (su Tramutata)



“Mi ha preso fin dall’inizio e non ho più potuto smettere… Questa storia è un’avventura sorprendente, incalzante e piena d’azione fin dalle prime pagine. Non esistono momenti morti.”

–-Paranormal Romance Guild (su Tramutata)



“Pieno zeppo di azione, romanticismo, avventura e suspense. Metteteci sopra le mani e non finirete di innamorarvene.”

–-vampirebooksite.com (su Tramutata)



“Un grande intreccio, è proprio il genere di libro che farete fatica a mettere giù per dormire. Il finale è ad alta tensione, talmente spettacolare che vorrete comprare all'istante il libro successivo, anche per vedere cosa succede.”

–-The Dallas Examiner (su Amata)



“Un libro che compete con TWILIGHT e IL DIARIO DEL VAMPIRO, che vorrete continuare a leggere fino all’ultima pagina!  Se vi piace l’avventura, l’amore e i vampiri questo libro fa per voi!”

–-vampirebooksite.com (su Tramutata)



“Morgan Rice dimostra ancora una volta di essere una narratrice di talento…  Può piacere a diversi tipi di pubblico, compresi i giovani amanti del genere vampire/fantasy. Il finale riserva una suspense inaspettata che vi lascerà senza fiato.”

–-The Romance Reviews (su Amata)



“L’ANELLO DELLO STREGONE ha tutti gli ingredienti per un successo immediato: intrecci, stratagemmi, mistero, cavalieri valorosi, e relazioni fiorenti pieno zeppo di cuori infranti, inganni e tradimenti. Vi delizierà per quattro ore, a qualsiasi età. Raccomandato per la collezione di tutti i lettori fantasy.”

–-Books and Movie Reviews, Roberto Mattos



Libri di Morgan Rice




L’ANELLO DELLO STREGONE


UN’IMPRESA DA EROI (Libro #1)


LA MARCIA DEI RE (Libro #2)


DESTINO DI DRAGHI (Libro #3)


GRIDO D’ONORE (Libro #4)


VOTO DI GLORIA (Libro #5)


UN COMPITO DI VALORE (Libro #6)


RITO DI SPADE (Libro #7)


CONCESSIONE D’ARMI (Libro #8)


UN CIELO DI INCANTESIMI (Libro #9)


UN MARE DI SCUDI (Libro #10)


UN REGNO D’ACCIAIO (Libro #11)


LA TERRA DEL FUOCO (Libro #12)


LA LEGGE DELLE REGINE (Libro #13)


GIURAMENTO FRATERNO (Libro #14)




THE SURVIVAL TRILOGY


ARENA ONE: SLAVERSUNNERS (Libro #1)


ARENA TWO (Libro #2)




APPUNTI DI UN VAMPIRO


TRAMUTATA (Libro #1)


AMATA (Libro #2)


TRADITA (Libro #3)


DESTINATA (Libro #4)


DESIDERATA (Libro #5)


BETROTHED (Libro #6)


VOWED (Libro #7)


FOUND (Libro #8)


RESURRECTED (Libro #9)


CRAVED (Libro #10)


FATED (Libro #11)












Ascolta (http://www.amazon.it/s?_encoding=UTF8&field-author=Morgan%20Rice&search-alias=digital-text) LA TRILOGIA DELLA SOPRAVVIVENZA in formato audio libro!




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Copyright В© 2012 by Morgan Rice



All rights reserved. Except as permitted under the U.S. Copyright Act of 1976, no part of this publication may be reproduced, distributed or transmitted in any form or by any means, or stored in a database or retrieval system, without the prior permission of the author.



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This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental.


“Fossi morto soltanto un’ora prima che succedesse ciò, avrei vissuto un’esistenza beata; in quanto, da questo istante, non v’è nulla che conti in questa vita mortale”.

В В В В --Shakespeare, Macbeth






I





UNO


Oggi è una giornata meno clemente del solito. Il vento sferza incessante e spazza i cumuli di neve dal grosso pino, facendomeli finire dritti in faccia mentre sto salendo per il versante della montagna. I miei piedi, stipati in stivali da escursione una misura troppo piccoli, scompaiono sotto sei pollici di neve. Scivolo di continuo, lottando per trovare l’equilibrio. Il vento arriva a raffiche così fredde da togliermi il respiro. Mi sembra di stare camminando in un globo di neve vivente.

Bree va dicendo che ГЁ dicembre. Le piace contare i giorni che mancano a Natale, strappare ogni giorno via i numeri su un vecchio calendario che ha trovato. Lo fa con tanto entusiasmo che non riesco a dirle che non siamo per niente vicini a dicembre. Non posso dirle che il suo calendario ГЁ vecchio di tre anni, e che non ne prenderemo uno nuovo, perchГ© hanno smesso di farli il giorno in cui ГЁ finito il mondo. Non voglio proibirle di fantasticare. Г€ per questo che ci sono le sorelle maggiori.

Bree si aggrappa sempre alle sue convinzioni, e ha sempre creduto che neve significhi dicembre, e anche se gliel’avessi detto, dubito che avrebbe cambiato idea. A dieci anni funziona così.

Ciò che Bree si rifiuta di vedere è che qui l’inverno arriva prima. Ci troviamo in alto sulle Catskill, e qui c’è un diversa percezione del tempo, un diverso susseguirsi delle stagioni. Qui, tre ore a nord di quella che una volta era la città di New York, le foglie iniziano a cadere a fine agosto, sparpagliandosi sulle catene montuose che si estendono a perdita d’occhio.

Il nostro calendario è stato quello corrente un tempo. Quando arrivammo, all’inizio, tre anni fa, ricordo che vidi la prima neve e andai a controllarla incredula. Non riuscivo a capire come mai il foglio dicesse ottobre. Pensavo che una neve tanto precoce fosse un caso eccezionale. Ma presto imparai che non lo era. Queste montagne sono abbastanza alte, e abbastanza fredde perché l’inverno cannibalizzi l’autunno.

Se Bree sfogliasse il calendario all’indietro, lo vedrebbe, l’anno vecchio, in grosse chiare lettere: 2117. Ovviamente, tre anni fa. Mi dico che è troppo presa dalla sua frenesia per controllare con più attenzione. Questo è quello che spero. Ma ultimamente, una parte di me sta iniziando a sospettare che lei in realtà sappia, che abbia scelto di proposito di perdersi nelle sue fantasie. Non la biasimo.

Certo, è da anni che non abbiamo un calendario vero. O telefono cellulare, o computer, o TV, o radio, o internet, o tecnologia di qualsiasi tipo—senza parlare dell’elettricità, o dell’acqua corrente. Eppure in qualche modo, siamo riuscite a farcela, noi due sole, per tre anni così. Le estati sono state tollerabili, con sempre meno giorni di fame. Almeno possiamo pescare, e i torrenti di montagna sembrano sempre trasportare salmone. Ci sono anche delle bacche, e perfino qualche frutteto selvatico di mele e pere che dopo tutto questo tempo produce ancora. Ogni tanto, riusciamo anche a prendere un coniglio.

Ma gli inverni sono intollerabili. È tutto gelato, o morto, e ogni anno sono sicura di non farcela. E questo è stato l’inverno peggiore di tutti. Continuo a ripetermi che le cose gireranno; ma sono passati giorni ormai dall’ultimo pasto decente, e l’inverno è appena iniziato. Siamo entrambe deboli per la fame e adesso Bree è anche malata. Non promette bene.

Mentre arranco sul versante della montagna, ripercorrendo gli stessi sfortunati passi di ieri, alla ricerca del nostro prossimo pasto, inizio a sentire la fortuna abbandonarci. A spingermi avanti è soltanto il pensiero di Bree, a casa, distesa che aspetta. Smetto di compatirmi e mi stampo il suo volto in mente. So che non posso trovare medicine, ma spero si tratti di una febbre passeggera, e che un buon pasto e un po’ di calore siano tutto ciò di cui abbia bisogno.

Ciò che le serve davvero è un fuoco. Ma ormai non accendo fuochi nel nostro caminetto; non posso rischiare che il fumo e l’odore mettano un mercante di schiavi al corrente della nostra posizione. Ma stasera la sorprenderò, e solo per un pochino, correrò il rischio. Bree ha una passione per i fuochi, e questo le solleverà l’umore. Se riesco a trovare un pasto per accompagnarlo—anche qualcosa di piccolo come un coniglio—la sua guarigione sarà completa. Non solo sotto l’aspetto fisico. Ho notato che ha iniziato a perdere speranza negli ultimi giorni—glielo leggo negli occhi—e ho bisogno di lei per rimanere forte. Mi rifiuto di rimanere ferma a guardarla spegnersi, come ha fatto mamma.

Una nuova raffica di vento mi schiaffeggia il viso, e questa è così lunga e violenta che devo calare la testa e aspettare finché non passa. Il vento mi romba nelle orecchie, e farei qualsiasi cosa per un cappotto invernale. Indosso solo una logora felpa con cappuccio, trovata anni fa sul ciglio della strada. Penso che fosse di un ragazzo, ma va bene, visto che le maniche sono abbastanza lunghe da coprirmi le mani e posso quasi usarle come guanti. Col mio metro e settanta non sono esattamente bassa; a chiunque fosse appartenuta, doveva essere alto. A volte mi chiedo se si preoccuperebbe del fatto che indosso roba sua. Ma poi penso che probabilmente è morto. Come chiunque altro.

I miei pantaloni non sono molto meglio: indosso ancora lo stesso paio di jeans – è un po’ imbarazzante farci caso –  che avevo addosso quando siamo scappati dalla città tutti quegli anni fa. Se c’è una cosa di cui mi pento, è essere partite così in fretta. Forse pensavo di trovare dei vestiti quassù, o che ci fosse ancora un negozio d’abbigliamento aperto da qualche parte, o perfino un Esercito della Salvezza. Com’era stupido da parte mia: ovviamente tutti i negozi di abbigliamento erano stati razziati da tempo. Era come se, nel giro di una notte, il mondo fosse passato dall’essere un luogo di abbondanza all’essere un luogo di penuria. Ero riuscita a trovare qualche abito sparso nei cassetti a casa di mio papà. E quelli li ho dati a Bree. Ero contenta che almeno alcuni dei suoi vestiti, come i pantaloni termici e le calze, potessero tenerla calda.

Il vento finalmente cessa, alzo la testa e mi affretto a salire prima che si si alzi ancora, cercando di raddoppiare la velocità, fino a quando non raggiungo l’altipiano.

Arrivo in cima, respiro a fatica, ho le gambe che vanno a fuoco, e mi guardo attorno lentamente. Gli alberi sono più radi quassù e in lontananza c’è un piccolo lago di montagna. È gelato, come tutti gli altri, e il sole ci sbatte sopra con un’intensità tale da farmi strizzare gli occhi.

Guardo subito la canna da pesca che avevo lasciato il giorno prima, fissata tra due rocce. Spunta fuori dal lago: un lungo pezzo di cordicella dondola dalla canna fino dentro un piccolo foro nel ghiaccio. Se il bastone è piegato, significa che Bree e io ceneremo stasera. Se no, saprò che non ha funzionato – di nuovo. Passo di corsa in mezzo a un gruppo di alberi fra la neve e guadagno una buona visuale.

Г€ dritta. Ovvio.

Il cuore mi si gela. Sono indecisa se camminare sul ghiaccio, usando l’accetta per creare un altro buco. Ma so già che non farebbe differenza. Il problema non è la sua posizione: il problema è questo lago. Il suolo è troppo gelato per provare a disseppellire vermi, e non saprei neanche dove cercarli. Non sono un cacciatore naturale, o uno di quelli che mette trappole. Se avessi saputo che sarei finita qui, avrei dedicato la mia intera infanzia alla Outward Bound, alle tecniche di sopravvivenza. Ma ora mi riscopro inutile in quasi tutto. Non so come piazzare trappole, e le mie lenze quasi mai catturano qualcosa.

Essere figlia di mio padre, figlia di marine, l’unica cosa che mi riesce bene —saper combattere – quassù è inutile. Sono indifesa contro gli animali, ma almeno me la cavo contro quelli con due gambe. Fin da quando ero giovane, che mi piacesse o meno, papà insisteva sul fatto che ero sua figlia – figlia di marine, e ne era fiero. Ha anche voluto che fossi il figlio che non ha mai avuto. Mi ha iscritto a pugilato, lotta, arti marziali miste… lezioni infinite su come usare un coltello, come sparare con una pistola, come trovare i punti di pressione, come giocare sporco. Più di tutto, ha preteso che fossi forte, che non mostrassi mai paura, e che non piangessi mai.

Paradossalmente, non ho mai avuto l’opportunità di usare una singola cosa di quelle che mi ha insegnato, e tutto questo non poteva essere più inutile quassù; non si vedono altre persone. Quello che davvero mi servirebbe sapere è come trovare cibo – non come prendere a calci qualcuno. E se mai dovessi imbattermi in un’altra persona, non proverò a lanciarmici addosso, ma chiederò aiuto.

Ci penso bene e mi ricordo che c’è un altro lago quassù, uno piccolo; l’ho visto una volta, un’estate in cui mi sentivo avventurosa e facevo escursioni lontane su in montagna. È mezzo chilometro scosceso, ed è da allora che non tento di salire lì .

Guardo in alto e sospiro. Il sole sta già calando, un cupo tramonto invernale si stende in una sfumatura rossastra. E mi sento già debole, stanca, e congelata. Mi serviranno quasi tutte le energie che ho solo per ridiscendere la montagna. L’ultima cosa che voglio è salire ancora più in alto. Ma una vocina dentro di me mi spinge a continuare a scalare. Più tempo passo sola questi giorni, e più forte nella mia testa diventa la voce di papà. È insopportabile e vorrei tenerla fuori, ma per qualche motivo, non ci riesco.

Smettila di lamentarti e continua a spingere, Moore!

A papГ  ГЁ sempre piaciuto chiamarmi per cognome. Moore. Mi dava fastidio, ma non gli interessava.

Se torno adesso, Bree non avrà niente da mangiare stasera. Quel lago lassù è quanto di meglio mi viene in mente, la nostra sola altra fonte di cibo. Voglio anche che Bree abbia un fuoco, e tutto il legno quaggiù è fradicio. Lassù, dove il vento è più forte, potrei trovare legno abbastanza asciutto per accendere un fuoco. Do un altro sguardo in alto verso la montagna, e decido di proseguire. Testa bassa e inizio l’escursione, portandomi appresso la canna.

Ogni passo è doloroso, come un milione di aghi affilati che mi pulsano nelle cosce, senza contare l’aria ghiacciata che mi perfora i polmoni. Il vento si fa più violento e la neve arriva a frustate, come carta vetrata sulla faccia. In alto un uccello di mette a gracchiare, quasi volesse deridermi. Proprio quando sento di non riuscire più a fare più un solo passo, raggiungo l’altopiano successivo.

Si trova molto in alto, ed ГЁ diverso da tutti gli altri: ГЁ pieno zeppo di alberi di pino, che rendono difficile vedere al di lГ  di due tre metri. Il cielo rimane tagliato fuori da questa enorme cupola, e la neve ГЁ ricoperta di aghi verdi. Gli enormi tronchi riescono a bloccare anche il vento. Mi sembra di essere entrata in un piccolo regno privato, nascosto dal resto del mondo.

Mi fermo, mi giro, e mi godo il panorama: la vista è stupefacente. Avevo sempre pensato che c’era una vista grandiosa da casa di papà, a metà strada sulla montagna, ma da qui, sulla cima, è spettacolare. I picchi di montagna si elevano in ogni direzione, e in lontananza riesco anche a vedere il fiume Hudson che brilla. Vedo anche le vie tortuose che si fanno strada attraverso la montagna, straordinariamente intatte. Probabilmente perché pochissime persone salgono di qua. Non ho infatti mai visto un’auto né nessun altro veicolo. Nonostante la neve, le strade si vedono bene. Sono strade spigolose e scoscese, battute dal sole e perfette per drenare; il grosso di quella neve si è sorprendentemente sciolto.

Di colpo, un cattivo pensiero mi assale. Preferisco le strade quando sono ghiacciate e ricoperte di neve, impraticabili per i veicoli, poiché di questi tempi le sole persone che hanno automobili e carburante sono i mercanti di schiavi – gli spietati cacciatori di taglie che lavorano per sfamare l’Arena Uno. Pattugliano ovunque, cercano i sopravvissuti, per rapirle e portarli all’arena come schiavi. Mi hanno detto che là li fanno combattere fino alla morte, per divertimento.

Bree e io siamo state fortunate. Negli anni passati quassù non abbiamo visto alcun mercante di schiavi – ma credo sia soltanto perché viviamo tanto in alto, in una zona tanto distante. Una sola volta ho sentito il rumore acuto del motore di un mercante di schiavi, a grande distanza, dall’altro lato del fiume. So che sono laggiù, da qualche parte che pattugliano. E non corro alcun rischio – mi assicuro di tenere un basso profilo, senza quasi mai bruciare legno a meno che non ne abbiamo bisogno, e tenendo tutto il tempo d’occhio Bree. La maggior parte delle volte la porto a cacciare con me – l’avrei fatto anche oggi se non fosse così malata.

Torno verso l’altopiano e punto gli occhi sul lago più piccolo. È tutto ghiaccio, e scintilla nella luce del pomeriggio come un gioiello smarrito, nascosto dietro una macchia di alberi. Mi ci avvicino, facendo qualche passo di prova sul ghiaccio per assicurarmi che non si rompa. Come lo sento solido, ne faccio qualcun altro. Trovo un punto, estraggo la piccola accetta dalla cintura e inizio a picconare il ghiaccio, un colpo dopo l’altro. Si forma un’incrinatura. Estraggo il coltello, mi metto in ginocchio e do un colpo più forte, esattamente al centro della spaccatura. Lavoro con la punta del coltello e faccio un piccolo foro, grande abbastanza per estrarre un pesce.

Scivolando, torno di corsa verso la riva, fisso la canna da pesca tra i due rami di un albero e srotolo la cordicella, quindi torno verso il buco e vi calo dentro il filo. Strattono un paio di volte, sperando che il riflesso dell’amo di metallo possa attrarre una qualche creatura vivente che sta sotto il ghiaccio. Ma non riesco a non pensare che è uno sforzo inutile, che qualsiasi cosa vivesse in queste laghi di montagna è morta da tempo.

Fa anche più freddo quassù e non posso restare qua a guardare la corda. Devo continuare a muovermi. Mi volto dall’altra parte e mi allontano dal lago; il mio lato superstizioso dice che potrei prendere un pesce solo se non rimango lì a fissare. Mi metto a girare in tondo attorno agli alberi,  sfregandomi le mie mani per cercare di riscaldarle. Qualcosa fa.

È a questo punto che mi viene in mente il legno secco. Guardo per terra alla ricerca di ramoscelli, ma è inutile. Il suolo è coperto di neve. Guardo gli alberi in alto, e mi accorgo che anche tronchi e rami sono coperti di neve. Ma un po’ più in là scorgo qualche albero spazzato dal vento e libero dalla neve. Ci vado, osservo la corteccia, ci faccio scorrere sopra la mano. Sono contenta nel vedere che alcuni dei rami sono asciutti. Prendo l’accetta e taglio uno dei rami più grandi. Tutto quello che mi serve è un po’ di legno, e questo grosso ramo è perfetto.

Come si stacca, lo afferro, senza lasciarlo cadere sulla neve, poi lo poggio contro il tronco e lo spacco a metà. Ripeto l’operazione fino a quando non ottengo una piccola pila di ramoscelli che posso portare fra le braccia. La sistemo nell’angolo di un ramo, protetta all’asciutto dalla neve sottostante.

Mi guardo intorno e osservo gli altri tronchi; guardo più vicino e qualcosa mi lascia perplessa. Mi avvicino a uno degli alberi, e guardando più attentamente mi accorgo che la sua corteccia è diversa dalle altre. Controllo bene e mi accorgo che non è un pino; è un acero. Mi sorprende vedere un acero così in alto quassù, e sono anche più sorpresa nel riuscire a riconoscerlo. Un acero è infatti la sola cosa in natura che sarei in grado di riconoscere. Senza volerlo, emerge un ricordo.

Una volta, quando ero piccola, mio papГ  si era messo in testa di portarmi a fare un giro nella natura. Dio sa perchГ©, mi ha portato a picchiettare gli alberi di acero. Abbiamo guidato per ore in un angolo del paese dimenticato da Dio; io avevo un secchio di metallo, lui un beccuccio, e abbiamo passato ore

con una guida vagando fra gli alberi, alla ricerca degli aceri perfetti. Ricordo lo sguardo di delusione sul suo volto dopo aver picchiettato il suo primo albero e aver visto del liquido chiaro colare nel secchio. Pensava fosse sciroppo.

La guida si mise a ridere, e gli disse che gli alberi di acero non producevano sciroppo—producevano linfa. La linfa doveva essere condensata per diventare sciroppo. Era un processo che richiedeva ore, disse. Ci sono voluti circa 80 galloni di linfa per ottenere un litro di sciroppo.

Papà guardò il secchio traboccante di linfa che aveva in mano e divenne rosso dalla rabbia, come se qualcuno gli avesse appena venduto una partita di merce avariata. Era l’uomo più orgoglioso che avessi mai incontrato, e se c’era qualcosa che odiava più di sentirsi stupido, era che qualcuno si prendesse gioco di lui. Quando l’uomo si mise a ridere, lui gli tirò addosso il secchio, mancandolo di un niente, mi prese la mano e ce ne andammo via con furia.

Dopo quella volta, non mi portГІ piГ№ a fare giri nella natura.

In fondo, non m’importava – e anzi mi era piaciuta la gita, anche se in auto è stato zitto furibondo per tutto il tragitto di ritorno a casa. Ero riuscita a raccogliere un po’ di linfa prima che mi afferrasse per andarcene, e mi ricordo che la sorseggiai di nascosto in macchina di ritorno a casa, mentre lui non guardava. Mi piacque tantissimo. Sapeva di acqua zuccherata.

Adesso sono qui davanti a quest’albero e lo riconosco come si riconoscerebbe un fratello. Quest’acero è così alto, esile e malridotto, che mi sorprenderebbe trovare anche solo poca linfa. Ma non ho niente da perdere. Tiro fuori il coltello e colpisco ripetutamente l’albero nello stesso punto. Poi scavo nel buco, affondando sempre più il coltello, girandolo e ruotandolo di continuo. In realtà non mi aspetto che succeda niente.

Rimango scioccata quando fuoriesce una goccia di linfa. E ancora piГ№ scioccata quando, pochi istanti dopo, le gocce si trasformano in un piccolo scolo. Tendo il dito, lo bagno e la porto alla lingua. Sento subito lo zucchero, e riconosco il gusto. Proprio come me lo ricordavo. Non riesco a crederci.

Ora la linfa gocciola più velocemente, e ne sto perdendo un bel po’ che scivola giù per il tronco. Cerco disperatamente qualcosa attorno per raccoglierla, un qualche contenitore – ma ovviamente non c’è niente. Poi mi ricordo: il termos. Tiro il termos di plastica fuori dalla cintura e lo capovolgo, per svuotarlo dall’acqua. Posso prendere acqua dolce ovunque, soprattutto con tutta questa neve – ma questa linfa è preziosa. Tengo il termos vuoto a filo sull’albero, sperando in un flusso adeguato. Spingo la plastica il più radente possibile al tronco, e riesco a prenderne il grosso. Si riempie più lentamente di quanto vorrei, ma in pochi minuti, sono riuscita a riempire mezzo termos.

Il flusso di linfa si ferma. Aspetto qualche secondo, mi chiedo se riprenderГ , ma non succede.

Mi guardo attorno e scorgo un altro acero a circa tre metri. La raggiungo di corsa, sollevo il coltello con entusiasmo e stavolta do un colpo forte, pensando di riempire il termos e immaginando lo sguardo di sorpresa sulla faccia di Bree quando lo gusterГ . Potrebbe non essere nutriente, ma di sicuro la renderГ  felice.

Ma stavolta, non appena il coltello colpisce il tronco si sente un rumore secco, di strappo, che non mi aspettavo, seguito dal crepitio del legname. Guardo in su e noto l’inclinazione dell’albero; troppo tardi mi accorgo che l’albero – gelato in un cappotto di ghiaccio —era morto. L’affondo del mio coltello era quello che mancava per farlo cadere.

Un attimo dopo, l’albero cade con tutti i suoi sei metri, precipitando al suolo. Solleva un’enorme nuvola di neve e aghi di pino. Mi accovaccio, nervosa: potrei avere segnalato la mia presenza a qualcuno. Sono furiosa con me stessa. È stato imprudente. Stupido. Avrei dovuto prima esaminare l’albero con più attenzione.

Ma dopo qualche momento, il battito cardiaco si stabilizza, il tempo di accorgermi che non c’è nessun altro quassù. Torno razionale, mi rendo conto che gli alberi cadono da soli nella foresta tutto il tempo, e il suo crollo non era necessariamente collegato a una presenza umana. Guardo l’area dove c’era l’albero, dando una seconda occhiata. Rimango a bocca aperta.

In lontananza, nascosto dietro un boschetto di alberi, costruito proprio dentro il versante della montagna stessa, c’è un piccolo cottage di pietra. È una piccola struttura, un quadrato perfetto, largo e profondo circa cinque metri, alto tre o quattro, i muri di blocchi di pietra antichi. Dal tetto spunta un piccolo camino, e piccole finestre sono ricavate nei muri. La porta d’ingresso, in legno, ad arco, è socchiusa.

Questo piccolo cottage è così ben mimetizzato, si fonde così bene con l’ambiente circostante, che perfino mentre lo fisso ho qualche difficoltà a distinguerlo. Il tetto e i muri sono coperti di neve, e la pietra viva si mimetizza perfettamente nel paesaggio. Sembra antico di centinaia di anni. Non riesco a capire cosa ci faccia qui, chi può averlo costruito, e perché. Forse è stato costruito per il guardiano di un parco statale. Forse era la casa di un eremita. O di un maniaco della sopravvivenza.

Sembra non essere stato toccato per anni. Scruto con attenzione il suolo della foresta, alla ricerca di impronte umane o animali, in entrata o in uscita. Ma non ce ne sono. Ripenso a quando la neve ha iniziato a cadere, diversi giorni fa, e mi faccio i conti in testa. Nessuno entra o esce di qua da almeno tre giorni.

Il pensiero vola all’idea di ciò che potrebbe esserci dentro. Cibo, vestiti, medicine, armi, materiali – qualsiasi cosa sarebbe un dono del cielo.

Mi muovo con prudenza attraverso la radura, controllandomi alle spalle mentre cammino, per assicurarmi che non ci sia nessuno che guardi. Mi muovo rapidamente, lasciando grosse e chiare impronte sulla neve. Raggiunta la porta d’ingresso, mi giro e osservo un’altra volta, poi rimango ferma e mi metto in ascolto. Non si sentono rumori a eccezione di quello del vento e di un ruscello vicino, che scorre a pochi passi davanti la casa. Tendo il braccio e sbatto con forza il dorso del manico dell’accetta sulla porta – producendo un forte rimbombo – per dare un ultimo avvertimento a eventuali animali che si nascondo dentro.

Nessuna risposta.

Apro rapidamente la porta con una spinta – la neve si scosta  – ed entro.

È scuro, solo l’ultima luce del giorno filtra attraverso le piccole finestre, e i miei occhi hanno bisogno di qualche momento per abituarsi. Aspetto, rimanendo in piedi con la schiena contro la porta, in guardia nel caso qualche animale stesse usando questo spazio come riparo. Ma dopo diversi secondi di attesa, i miei occhi si sono completamente abituati alla luce fioca ed è chiaro che sono da sola.

La prima cosa che noto di questa piccola casa è il suo calore. Forse perché è così piccola, col soffitto basso e costruita direttamente dentro la pietra della montagna; o forse perché è protetta dal vento. Anche se le finestre aperte sono esposte alle intemperie, e la porta è ancora socchiusa, ci saranno almeno nove gradi in più qui dentro —molto più calda di quanto sia mai stata casa di papà, anche col fuoco acceso. Casa di papà era stata costruita con pochi soldi, i muri erano sottili come carta e rivestiti di vinile; e si trovava sull’angolo di una collina che sembra essere il punto di passaggio preferito del vento.

Ma questo posto è diverso. I muri di pietra sono così spessi e ben fatti, da farmi sentire protetta e riparata qui dentro. Posso solo immaginare come potrebbe diventare caldo questo posto chiudendo la porta, sbarrando le finestre, e accendendo un fuoco nel camino – che sembra essere funzionante.

L’interno è composto da una grande stanza – strizzo gli occhi nel buio mentre perlustro il pavimento, alla ricerca di qualsiasi cosa, davvero qualsiasi, da recuperare. Incredibilmente, sembra che nessuno entri in questo posto dai tempi della guerra. Tutte le altre case che ho visto avevano le finestre frantumate, i detriti sparsi ovunque, ed erano palesemente state ripulite di qualsiasi cosa utile, finanche del circuito elettrico. Ma non questa. È immacolata, pulita e ordinata, come se un giorno il proprietario si fosse alzato e se ne fosse andato. Mi domando se c’era prima che iniziasse la guerra. A giudicare dalle ragnatele sul soffitto, e dalla sua incredibile posizione, così ben nascosta dietro agli alberi, scommetto che c’era anche prima. E che nessuno viene qui da decenni.

Vedo il profilo di un oggetto sul muro, e vado per raggiungerlo, brancolando al buio con le mani tese in avanti. Appena lo tocco con le mani, capisco che è un cassettone. Scorro le dita sopra la sua liscia superficie di legno e le sento riempirsi polvere. Scorro le dita sopra piccoli pomelli – le maniglie dei cassetti. Tiro con delicatezza, aprendoli uno alla volta. È troppo scuro per vedere, quindi infilo la mano in ogni cassetto, perlustrando la superficie. Il primo cassetto non frutta niente. Neppure il secondo. Li apro tutti, rapidamente, e le mie speranze stanno svanendo – quando all’improvviso, al quinto cassetto, mi fermo. C’è qualcosa nella parte posteriore. La tiro fuori lentamente.

La porto alla luce, e dapprima non so dire cos’è; ma poi sento il foglio di alluminio rivelatore, e realizzo: è una barretta di cioccolato. Erano stati dati un paio di morsi, ma è ancora avvolta nel suo involucro originale, e abbastanza ben conservata. Ne scarto giusto un pezzetto, lo porto al naso e l’annuso. Non ci credo: vero cioccolato. È dalla guerra che non abbiamo cioccolato.

Odorarlo mi fa venire un’acuta fitta di fame e devo fare ricorso a tutta la mia forza di volontà per non stracciarlo e divorarlo. Mi sforzo di resistere, lo riavvolgo con cura e lo ripongo in tasca. Aspetterò di essere con Bree per godermelo. Sorrido, immaginando lo sguardo sul suo volto quando darà il suo primo morso. Sarà impagabile.

Frugo nei cassetti rimasti, fiduciosa adesso di trovare ogni genere di tesoro. Ma tutto il resto si rivela vuoto. Mi volto e attraverso la stanza in lungo e in largo, affianco ai muri, nei quattro angoli, alla ricerca di qualsiasi cosa. Ma ГЁ deserta.

All’improvviso, cammino su qualcosa di morbido. Mi inginocchio e la raccolgo, mettendola alla luce. Sono stupita: un orsetto di peluche. È logoro e gli manca un occhio, ma comunque Bree adora gli orsetti di peluche e le manca quello che ha abbandonato. Andrà in estasi quando lo vedrà. Sembra che oggi sia il suo giorno fortunato.

Metto l’orsetto nella cintura, e mentre mi rialzo, sfioro con la mano qualcosa di morbido sul pavimento. L’afferro e la tiro su, e sono felicissima nel scoprire che è una sciarpa. È nera e coperta di polvere – non potevo vederla mai al buio – e come la metto al collo e sul petto, ne sento subito il calore. La sbatto forte fuori dalla finestra, scrollando via la polvere. La guardo alla luce: è lunga e spessa – non ha neanche un buco. È oro puro. Me l’avvolgo subito intorno al collo e me la infilo sotto la camicia: sento che mi sto già riscaldando. Starnutisco.

Il sole sta tramontando e siccome pare che abbia trovato tutto ciò che potevo trovare, vado per uscire. Mentre mi dirigo verso la porta, all’improvviso, sbatto il dito del piede contro qualcosa di duro e metallico. Mi fermo e mi inginocchio, cercando di capire se si tratta di un’arma. Non lo è. È un pomello di ferro rotondo, attaccato al pavimento di legno. Come un battente. O una maniglia.

Lo tiro forte a destra e a sinistra. Non succede niente. Provo a girarlo. Niente. Non avendo altre opzioni, mi metto su un lato e lo tiro con forza verso l’alto.

Si apre una botola, sollevando una nuvola di polvere

Guardo in giù e scopro un’intercapedine, alta circa un metro, con il pavimento in terra battuta. In testa mi passano tutte le possibilità. Se vivessimo qui, e dovesse succedere qualche problema, potrei nascondere Bree quaggiù. Questo piccolo cottage sta diventando sempre più prezioso ai miei occhi.

E non solo. Come guardo giГ№ intravedo qualcosa luccicare. Apro completamente la pesante porta di legno e balzo giГ№ per la scala. Г€ tutto nero, e tengo le mani davanti mentre cammino brancolando. Faccio un passo in avanti e sento qualcosa. Vetro. Gli scaffali sono incassati al muro, e sopra in fila ci sono dei barattoli di vetro. Barattoli di conserve.

Ne tiro giù uno e lo porto alla luce. Il contenuto è rosso e morbido. Somiglia a marmellata. Svito rapidamente il coperchio di stagno, lo porto al naso e annuso. Vengo investita dall’odore pungente di lamponi. Ci ficco dentro un dito, ne raccolgo un po’ e me lo porto alla lingua per assaggiare. Non ci posso credere: marmellata di lamponi. E sembra fresca come se fosse stata fatta ieri.

Stringo rapidamente il coperchio, m’infilo il vaso in tasca e ripasso agli scaffali. Stendo la mano e ne sento a dozzine nell’oscurità. Afferro il più vicino, corro di nuovo alla luce e lo tiro su. Sembrano sottaceti.

Sono sbigottita. Questo posto è una miniera d’oro.

Vorrei potermi portare tutto, ma ho le mani gelate, non ho come trasportare alcunché e si sta facendo scuro fuori. Rimetto quindi il barattolo di marmellata laddove l’avevo trovato, risalgo la scala, e, tornata al piano terra, chiudo per bene lo sportello della botola dietro di me. Vorrei avere un lucchetto; m’innervosisce lasciare tutta questa roba quaggiù, incustodita. Ma poi mi torna in mente che questo luogo non è stato toccato per anni – e che probabilmente non l’avrei mai neanche notato se quell’albero non fosse caduto.

Esco, chiudendo per bene la porta, con senso di protezione, come se questa fosse giГ  casa nostra.

Con le tasche piene, mi affretto di nuovo verso il lago – ma mi blocco di colpo non appena percepisco un movimento e sento un rumore. Penso subito che qualcuno possa avermi seguito; ma mentre mi volto lentamente, vedo qualcos’altro. C’è un cervo che mi guarda impalato, a tre metri di distanza. È il primo cervo che vedo da anni. I suoi grandi occhi neri sono fissi sui miei, poi all’improvviso si gira e fugge via.

Sono senza parole. Ho trascorso mesi e mesi alla ricerca di un cervo, sperando di potermici avvicinare abbastanza da lanciare il mio coltello. Ma non sono mai riuscita a trovarne uno, da nessuna parte. Forse non stavo cacciando abbastanza in alto. Forse hanno vissuto quassГ№ tutto questo tempo.

Decido che ritornerГІ qui la mattina presto, e aspetterГІ tutto il giorno se necessario. Se ГЁ stato qui una volta, forse ritornerГ . La prossima volta che lo vedo, lo uccido. Quel cervo ci sfamerebbe per settimane.

Sento tornare la speranza mentre mi corro verso il lago. Mi avvicino a controllare la mia canna, e ho il batticuore nel vedere che è piegata quasi a metà.  Tremando per l’emozione, mi precipito, scivolando, verso il ghiaccio. Afferro la corda che vibra freneticamente, e prego che tenga.

Tendo le braccia e la strattono con un colpo secco. Sento la forza di un grosso pesce che tira forte e dentro di me spero che la corda non si spezzi e l’amo non si rompa. Gli do un ultimo colpo e il pesce balza fuori dal buco. È un salmone enorme, grande quanto il mio braccio. Cade sul ghiaccio e si dimena in tutti i sensi, scivolando da un lato all’altro. Mi abbasso per prenderlo, ma mi scivola dalle mani e ripiomba sul ghiaccio. Ho le mani troppo viscide per tenerlo fermo, così mi abbasso le maniche, mi chino e stavolta l’afferro con maggiore fermezza. Si divincola e si contorce nelle mie mani per trenta secondi buoni, fino a quando non si placa, morto.

Sono meravigliata. Г€ la mia prima preda da mesi.

Mi sento estasiata mentre scivolo sul ghiaccio e lo poggio sulla riva; lo avvolgo nella neve, temendo che possa in qualche modo tornare in vita e risaltare nel lago. Tiro giù la canna e la corda e me li metto in una mano, poi afferro il pesce con l’altra. Sento il barattolo di marmellata in una tasca, il termos di linfa nell’altra – stipato insieme alla barretta di cioccolato – e l’orsetto di peluche alla cintura. Bree avrà di che gioire stasera.

Г€ rimasta solo una cosa da prendere. Mi dirigo verso la catasta di legno secco, con la canna in equilibrio in un braccio, e con la mano libera raccolgo tutti i ceppi che riesco a prendere. Ne faccio cadere qualcuno; non riesco a portare tanti quelli che vorrei, ma non mi lamento. Posso sempre tornare domattina per i restanti.

Con mani, braccia e tasche piene, scendo cadendo e scivolando giù per il ripido versante della montagna nell’ultima luce del giorno, attenta a non fare cadere niente del mio tesoro. Mentre procedo, non riesco a smettere di pensare al cottage. È perfetto, e il cuore batte sempre più forte all’idea. È esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. La casa di nostro papà è troppo in vista; è costruita sulla strada principale. Per mesi sono stata preoccupata del fatto di essere troppo vulnerabili là dove siamo. Sarebbe bastato che passasse un qualunque mercante di schiavi e saremmo state nei guai. È da tanto tempo che vorrei che io e Bree cambiassimo posto, ma non ho mai saputo dove. Non ci sono altre case quassù.

Quel piccolo cottage, così in alto, così lontano da qualsiasi strada – e letteralmente costruito dentro la montagna – è così ben mimetizzato, che sembra quasi essere stato costruito apposta per noi. Nessuno riuscirebbe mai a trovarci lì. E pure se ci riuscissero, non potrebbero mai avvicinarsi a noi con un veicolo. Dovrebbero muoversi a piedi, e da quel punto vantaggioso, li distinguerei lontani un chilometro.

La casa ha anche una fonte di acqua dolce, un ruscello che scorre proprio davanti la porta; non dovrei lasciare Bree sola ogni volta che esco a fare un bagno o a lavare i vestiti. E non dovrei portare i secchi di acqua dal lago uno alla volta ogni volta che preparo un pasto. Senza dire che con quella copertura di alberi, saremmo abbastanza nascosti da poter accendere il caminetto ogni sera. Saremmo più sicure, più calde, in un luogo brulicante di pesce e selvaggina – e provvisto di un seminterrato pieno di cibo. In testa mia ho deciso: ci sposteremo lì domani.

Г€ come togliersi un peso dalle spalle. Mi sento rinata. Per la prima volta da non so quando, non sento la fame che morde, non sente il freddo che mi buca le punte delle dita. Anche il vento, man mano che scendo, sembra rimanere dietro di me, come se mi aiutasse ad andare avanti, e sento che le cose finalmente sono girate. Per la prima volta da tanto tempo, so che possiamo farcela.

Che possiamo sopravvivere.




DUE


Tempo che raggiungo casa di papà è il crepuscolo, la temperatura scende, la neve inizia a indurirsi e a crepitare sotto i miei piedi. Esco dal bosco e vedo casa nostra, piazzata in bella vista sul ciglio della strada; sono sollevata nel vedere che tutto sembra tranquillo, esattamente come l’avevo lasciato. Scandaglio subito la neve per eventuali impronte di persone – o di animali – in entrata o in uscita, e non ne trovo nessuna.

Non ci sono luci accese in casa, ma questo è normale. Mi preoccuperei se ce ne fossero. Non abbiamo elettricità, e vedere delle luci potrebbe significare solo che Bree ha acceso delle candele – e non lo farebbe mai senza di me. Mi fermo e rimango in ascolto per diversi secondi: e tutto tace. Nessun rumore di lotta, nessun pianto d’aiuto o di dolore. Tiro un sospiro di sollievo.

Una parte di me teme sempre di tornare e trovare la porta spalancata, la finestra frantumata, impronte intorno alla casa, Bree rapita. Ho fatto quest’incubo diverse volte, e ogni volta mi sveglio sudando, e cammino fino all’altra stanza per assicurarmi che Bree è lì. E ogni volta è lì, sana e salva, e mi rimprovero. Lo so che dovrei smettere di preoccuparmi, dopo tutti questi anni. Ma per qualche motivo, non riesco a scrollarmi di dosso questo pensiero: ogni volta che devo lasciare Bree da sola, è come una piccola lama nel cuore.

Rimango in allerta, controllo la casa e tutt’attorno sotto la luce morente del giorno. A essere onesti, non è mai stata una gran casa. Il tipico ranch di montagna, con la forma di una scatola rettangolare del tutto anonima, addobbato con un rivestimento vinilico da quattro soldi color acqua , che sembrava vecchio il primo giorno e che adesso sembra proprio marcito. Le finestre sono piccole, poche e distanti fra loro, fatte di plastica di scarsa qualità. Sembra di essere in un campeggio per roulotte. Largo circa cinque metri e profondo dieci, dovrebbe essere un’unica camera da letto, ma chiunque l’abbia costruito, nella sua saggezza, ha ricavato due piccole camere da letto e un ancor più piccolo soggiorno.

Ricordo di averla visitata da bambina, prima della guerra, quando il mondo era ancora normale. Papà, quando era a casa, ci portava qui nei fine settimana, per uscire un po’ dalla città. Non volevo apparire ingrata nei suoi confronti e mi facevo sempre vedere contenta, ma in realtà non mi è mai piaciuta; l’ho sempre vista scura e angusta, e faceva odore di muffa. Da bambina, ricordo che non riuscivo ad aspettare che finisse il weekend per allontanarmi da questo posto. Ricordo che giurai segretamente che quando sarei stata più grande, non sarei mai ritornata qua.

Adesso, ironia della sorte, sono grata per questo posto. Questa casa ha salvato la mia vita – e quella di Bree. Quando la guerra è scoppiata e siamo dovute fuggire dalla città, non avevamo opzioni. Se non era per questo posto, non so dove saremmo andate. E se questo posto non fosse stato così lontano ed elevato, allora saremmo probabilmente state catturate dai mercanti di schiavi tempo fa. È buffo come da bambini si possano odiare così tanto alcune cose che finisci con l’apprezzare da adulto. Beh, quasi adulta. A 17 anni mi considero un’adulta. E in tutti i casi, negli ultimi anni sono probabilmente cresciuta più che mai.

Se questa casa non fosse stata costruita proprio sulla strada, così esposta – se fosse giusto un po’ più piccola, più protetta, più addentro nel bosco, non credo che mi preoccuperei tanto. Certo, dovremmo comunque sopportare i muri sottili come carta, il tetto che perde e le finestre che lasciano entrare il vento. Non sarebbe mai una casa comoda, né calda. Ma almeno sarebbe sicura. Adesso, ogni volta che la vedo e guardo il panorama che c’è al di là, non posso fare a meno di pensare che è un bersaglio facile.

I piedi crepitano sulla neve, mentre mi avvicino alla porta vinilica, e sento un latrato provenire da dentro casa. È Sasha, e sta facendo ciò per cui l’ho addestrata: proteggere Bree. Le sono davvero grata. Sorveglia Bree con tanta cura, abbaia al minimo rumore; il che mi rende abbastanza tranquilla da lasciarla quando vado a caccia. Tuttavia allo stesso tempo, il suo abbaiare a volte mi fa anche temere che ci farà scoprire: dopotutto, un cane che abbaia di solito significa persone. E questo è esattamente ciò che cercherebbe di sentire un mercante di schiavi in ascolto.

Entro in casa e la zittisco rapidamente. Chiudo la porta dietro di me, sforzandomi di tenere i ceppi in equilibrio in una mano, ed entro nella stanza buia. Sasha si calma, scodinzola e mi salta addosso. Un labrador color cioccolato, di sei anni, Sasha è il cane più fedele che potrei mai immaginare – e la migliore compagnia. Se non era per lei, credo che Bree sarebbe caduta in depressione tanto tempo fa. E anch’io.

Sasha mi lecca la faccia, si lamenta e sembra anche più eccitata del solito; mi annusa il girovita, le tasche, percependo che ho portato a casa qualcosa di speciale. Poso i ceppi per coccolarla e nel farlo sento le sue costole. È troppo magra. Mi sento in colpa. D’altro canto, Bree e io siamo messe allo stesso modo. Dividiamo sempre con lei tutto ciò che ci procuriamo: noi tre siamo una squadra di uguali. Tuttavia, vorrei poterle dare di più.

Strofina il naso sul pesce, facendomelo volare via di mano e facendolo cadere sul pavimento. Sasha ci piomba immediatamente di sopra, e con gli artigli lo fa scivolare per il pavimento. Ci salta sopra di nuovo, stavolta mordendolo. Ma non deve piacerle il sapore del pesce crudo, e lo lascia andare. Piuttosto, ci gioca, saltandoci sopra ripetutamente mentre il pesce scivola sul pavimento.

“Sasha, smettila!”, dico piano, per non svegliare Bree. Ho anche paura che se ci gioca troppo, finisca con lo squarciarlo e sprecare parte della carne buona. Sasha ubbidisce e si ferma. Ma mi rendo conto di quanto è eccitata e voglio darle qualcosa. Infilo una mano in tasca, svito il coperchio di stagno del barattolo, prendo con il dito un po’ della marmellata di lamponi e gliel’avvicino.

Senza perdere un attimo mi lecca il dito, e mi ripulisce la mano con tre grandi leccate. Si pulisce il muso e torna a fissarmi con gli occhi spalancati, volendone giГ  ancora.

Le accarezzo la testa, le do un bacio, e mi rimetto in piedi. A questo punto mi chiedo se sono stata premurosa a dargliene un po’ o crudele a dargliene così poco.

La casa è scura, e incespico, come sempre quando è notte. Difficilmente faccio un fuoco. Per quanto abbiamo bisogno del calore, non voglio rischiare di attrarre l’attenzione. Ma stasera è diverso: Bree deve guarire, sia fisicamente che mentalmente, e so che un fuoco è proprio quello che ci vuole. Mi sento più tranquilla nell’abbandonare ogni tipo di cautela, visto che domani ci sposteremo da qui.

Attraverso la stanza e raggiungo la credenza, estraggo un accendino e una candela. Una delle migliori cose di questo posto era la sua enorme riserva di candele, uno dei pochissimi effetti collaterali positivi di avere un papà marine, malato di tecniche di sopravvivenza. Quando venivamo da bambine, l’elettricità se ne andava a ogni tempesta, e di conseguenza aveva fatto riserve di candele, per averla vinta sulle intemperie. Mi ricordo che lo prendevo in giro per questo, che gli diedi dell’accumulatore quando scoprii il suo armadio pieno zeppo di candele. Ora che sono arrivata alle ultime, vorrei che ne avesse accumulate di più.

Ho tenuto in vita il nostro unico accendino usandolo con moderazione, e travasando un pochino di benzina dalla motocicletta ogni due, tre settimane. Ringrazio Dio ogni giorno per la moto di papà e sono anche grata per avergli fatto il pieno l’ultima volta: è l’unica cosa che abbiamo a farmi pensare di avere ancora un vantaggio, di avere qualcosa davvero di valore, una maniera di sopravvivere se le cose dovessero mettersi male. Papà ha sempre tenuto la moto nel piccolo garage attaccato a casa, ma all’inizio quando siamo arrivati, dopo la guerra, la prima cosa che ho fatto è stata prenderla e portarla su per la salita, nel bosco, e nasconderla sotto cespugli, rami e spine così fitti che nessuno avrebbe mai potuto trovarla. Ho pensato che se la nostra casa fosse mai stata scoperta, la prima cosa che avrebbero fatto sarebbe stata controllare il garage.

Sono anche grata a mio papà per avermi insegnato a guidare quando ero giovane, nonostante le lamentele di mamma. È stata più difficile da imparare rispetto a molte moto, per via del sidecar attaccato. Ripenso a quando dodicenne, spaventata, imparavo a guidare mentre papà stava seduto nel sidecar, urlandomi comandi ogni volta che m’inceppavo. Ho imparato su queste ripide, implacabili strade di montagna e ricordo che sembrava di stare per morire. Ricordo che guardavo il bordo, vedevo il precipizio, e in lacrime, insistevo che guidasse lui. Ma si rifiutava. Rimaneva ostinatamente seduto lì per più di un’ora, fino a quando finalmente non smettevo di piangere e ci riprovavo. E in qualche modo, ho imparato a guidarla. In pratica è così che sono stata educata.

Non tocco la moto dal giorno in cui l’ho nascosta, e non voglio neanche arrischiarmi di salire a vederla se non quando devo travasare la benzina – e anche quello lo faccio solo di notte. Immagino che se mai un giorno fossimo nei guai e avessimo bisogno di andarcene via di qua velocemente, metterò Bree e Sasha nel sidecar e condurrò tutti verso la salvezza. Ma in realtà, non ho idea di dove potremmo andare. Da quello che ho visto e sentito, il resto del mondo è una zona devastata, piena di criminali violenti, bande, e qualche sopravvissuto. I pochi, violenti, che sono riusciti a sopravvivere, si sono radunati nelle città, rapendo e schiavizzando chiunque trovassero, per fini propri, o per rifornire i combattimenti mortali nelle arene. Scommetto che Bree e io siamo tra i pochissimi sopravvissuti che vivono ancora liberi, per contro proprio, fuori dalle città. E fra i pochissimi che non sono ancora morti di fame.

Accendo la candela e Sasha mi segue mentre attraverso lentamente la casa buia. Presumo che Bree stia dormendo e questo mi preoccupa: normalmente non dorme così tanto. Mi fermo davanti alla sua porta, e penso se è o no il caso di svegliarla. Mentre sto lì, alzo lo sguardo e vengo spaventata dalla mia stessa immagine riflessa nel piccolo specchio. Sembro molto più grande d’età, come accade ogni volta che mi guardo. La mia faccia, magra e asciutta, è arrossata dal freddo, i capelli castano chiaro mi cadono sulle spalle, incorniciandomi la faccia, e i miei occhi grigio ferro mi fissano come se appartenessero a qualcuno che non riconosco. Sono occhi intensi e severi. Papà diceva sempre che erano gli occhi di un lupo. Mamma diceva sempre che erano belli. Non sapevo a chi credere.

Distolgo subito lo sguardo, non mi va di stare a guardarmi. Stendo la mano e rigiro lo specchio, così non succederà più.

Lentamente apro la porta di Bree. Nell’istante in cui lo faccio, Sasha si lancia e corre dal lato di Bree, si sdraia e poggia il mento sul petto di Bree per leccarle la faccia. Non smetterò mai di stupirmi per quanto siano vicine loro due – a volte mi sembra che siano ancora più vicine di quanto lo siamo noi due.

Bree apre lentamente gli occhi nel buio.

“Brooke?” domanda.

“Sono io” rispondo dolcemente. “Sono a casa”.

Si mette seduta e sorride mentre i suoi occhi si accendono nel vedermi. Г€ stesa su un materasso da quattro soldi messo per terra e si sbarazza della sua coperta leggera per alzarsi dal letto, ancora in pigiama. Si muove piГ№ lentamente del solito.

Mi chino e l’abbraccio.

“Ho una sorpresa per te” le dico, riuscendo a stento a contenere l’eccitazione.

Solleva lo sguardo e spalanca gli occhi, poi li chiude e apre le mani, in attesa. È sempre così fiduciosa e ottimista che mi sorprende ogni volta. Decido cosa darle prima, poi opto per il cioccolato. Metto la mano in tasca, tiro fuori la barretta e lentamente gliela sistemo sul palmo. Apre gli occhi e si guarda la mano, socchiudendo gli occhi alla luce, indecisa. Le porgo la candela.

“Cos’è?” domanda.

“Cioccolato” rispondo.

Mi guarda come se le stessi facendo uno scherzo.

“Sul serio”, le dico.

“Ma dove l’hai preso?” mi chiede, non capendo. Abbassa lo sguardo come se un asteroide le fosse appena atterrato sulla mano. Non la biasimo: non ci sono più negozi, non si cono persone, e neanche posti nel raggio di cento chilometri dove aspettarsi di trovare qualcosa del genere.

Le sorrido. “Me l’ha dato Babbo Natale, per te. È un regalo di Natale anticipato”.

Corruga le sopracciglia. “No, davvero”, insiste.

Faccio un respiro profondo, e decido che è il momento di dirle della nostra nuova casa, e che domani ce ne andremo da qui . Cerco la maniera migliore di formulare la frase. Spero che sarà contenta tanto quanto me – ma con i bambini, non si sa mai. Una parte di me teme che potrebbe essersi affezionata a questo posto e che non voglia partire.

“Bree, ho grandi notizie”, le dico, chinandomi e tenendole le spalle. “Oggi ho scoperto il posto più meraviglioso del mondo, in alto alto. È un piccolo cottage di pietra ed è perfetto per noi. È comodo, caldo, sicuro, e ha il caminetto più bello che esiste, e possiamo accenderlo ogni notte. E, cosa migliore di tutte, c’è ogni sorta di cibo. Come questo cioccolato”.

Bree ripensa al cioccolato, se lo studia, e i suoi occhi si spalancano non appena realizza che è vero. Toglie delicatamente l’incarto e l’odora. Chiude gli occhi e sorride, abbassa la testa per fare un morso – ma all’improvviso si ferma. Mi guarda preoccupata.

“E tu?” mi chiede. “C’è solo una barretta?”

Bree è questa, sempre premurosa, anche se sta morendo di fame. “Vai prima tu”, le dico. “Okay”.

Toglie l’incarto, e dà un gran morso. La sua faccia, scavata dalla fame, sprofonda nell’estasi.

“Mastica lentamente”, la avverto. “Non vorrai farti venire il mal di pancia”.

Mastica più piano, assaporando ogni morso. Ne stacca un grande pezzo e me lo mette sul palmo. “Tocca a te”, dice.

Lo metto in bocca lentamente, facendo  un piccolo morso, tenendolo sulla punta della lingua. Lo succhio, poi lo mastico a poco a poco, gustandomi ogni istante. Il gusto e l’odore del cioccolato riempiono i miei sensi. È con ogni probabilità la cosa migliore che abbia mai mangiato.

Sasha si lamenta, e avvicina il naso alla cioccolata; Bree stacca un pezzo e glielo offre. Sasha glielo strappa via dalle dita e lo ingoia in un sol boccone. Bree ride divertita, come sempre. Poi, mostrando grande autocontrollo, Bree avvolge la metà rimanente della barretta, stende le braccia verso l’alto e lo ripone saggiamente in alto sul comò, fuori dalla portata di Sasha. Bree sembra ancora debole, ma vedo che inizia a tornarle un po’ di morale .

“Che cos’è?” domanda indicando la mia cintura.

Per un attimo non capisco di cosa stia parlando, poi abbasso lo sguardo e vedo l’orsetto di peluche. Nell’euforia, me ne ero quasi dimenticata. Allungo la mano e glielo porgo.

“L’ho trovato nella casa nuova”, le dico. “È per te”.

Bree spalanca gli occhi euforica e afferra l’orsetto, se lo porta al petto e lo culla.

“Lo adoro!” esclama Bree, con gli occhi che brillano. “Quando ci trasferiamo? Non vedo l’ora”!

Sono sollevata. Prima di riuscire a rispondere, Sasha abbassa la testa e mette il naso sul nuovo orsetto di Bree, mettendosi ad annusarlo; Bree glilo sfrega sul muso per gioco, Sasha lo agguanta e si mette a correre per la stanza.

“Ehi!” urla Bree, che scoppia a ridere sguaiatamente e parte all’inseguimento.

Corrono entrambe per il soggiorno, ormai prese dalla loro caccia all’orsetto. Non so chi si stia divertendo di più.

Le seguo dentro la stanza, stando attenta a reggere la candela per non farla spegnere, e la porto verso il mucchietto di legna. Metto qualcuno dei legnetti più piccoli nel caminetto, poi prendo una manciata di foglie secche dal cestino che c’è accanto. Sono contenta di averle raccolte, lo scorso autunno, con l’idea di usarle per accendere il fuoco. Funzionano alla perfezione. Piazzo le foglie secche sotto i ramoscelli, le accendo e la fiamma raggiunge subito il legno accendendolo. Continuo a mettere foglie nel caminetto, fino a quando i ramoscelli non prendono completamente. Spengo la candela, risparmiandola per la prossima volta che mi servirà.

“Stiamo facendo un fuoco?” grida Bree elettrizzata.

“Sì” le dico. “Stasera festeggiamo. È la nostra ultima sera qui”.

“Yay!” grida Bree, saltando su e giù, mentre Sasha le abbaia accanto, partecipando anche lei all’euforia. Bree si mette a correre, afferra qualche legnetto e mi aiuta a collocarli sul fuoco. Lo alimentiamo con cura, lasciando spazio per l’aria; Bree ci soffia un po’ sopra, dando ossigeno alla fiamma. Come i ramoscelli prendono, piazzo in cima un ceppo più spesso. Continuo ad accatastare legni grossi, fino a quando non viene fuori un fuoco bello vivace.

In pochi istanti, la stanza è tutta illuminata, e si sente già il calore. Stiamo in piedi accanto al fuoco; stendo un po’ le mani, le sfrego, e lascio che il calore mi penetri nelle dita. A poco a poco, va tornando la sensibilità. Lentamente mi scrollo di dosso il freddo dei lunghi giorni passati all’aperto, e inizio nuovamente a sentirmi me stessa.

“Cos’è quello?” domanda Bree, indicando il pavimento. “Sembra un pesce!”.

Va verso il pesce, lo raccoglie, e come cerca di afferrarlo le scivola dalle mani. Si mette a ridere, e Sasha, senza perdere un secondo, ci salta di sopra con tutte le  zampe, facendolo scivolare per il pavimento. “Dove l’hai preso?” urla Bree.

Lo raccolgo prima che Sasha faccia altri danni. Apro la porta e lo lancio fuori, sulla neve, dove si conserverГ  meglio e rimarrГ  al sicuro; quindi mi chiudo la porta dietro.

“Questa era l’altra sorpresa”, dico. “Stasera si cena!”.

Bree mi viene di sopra e mi abbraccia forte. Sasha abbaia, come se capisse. L’abbraccio anch’io.

“Ho altre due sorprese per te”, le annuncio con un sorriso. “Sono per dessert. Vuoi aspettare fino a dopo cena? O le vuoi ora”?

“Ora!” urla elettrizzata.

Sorrido, euforica anch’io. Almeno la terrà tranquilla fino alla cena.

Infilo la mano in tasca ed estraggo il barattolo di marmellata. Bree lo guarda divertita, si vede che non sa bene cosa pensare. Svito il coperchio e glielo piazzo sotto il naso. “Chiudi gli occhi”, le dico.

Li chiude. “Ora, inspira”.

Respira profondamente, e un sorriso le attraversa la faccia. Apre gli occhi.

“Odora di lamponi!” esclama.

“È marmellata. Vai. Provala”.

Bree infila due dita, prende un bella palettata e se la mangia. I suoi occhi si illuminano.

“Wow”, esclama, e infila le dita nel barattolo per prenderne un altro bel po’ e avvicinarlo a Sasha, la quale scatta e senza esitare se lo sbafa in un boccone. Mentre Bree ride euforica, stringo il coperchio e ripongo il barattolo sulla cappa, lontano da Sasha.

“Anche quello viene da casa nuova?” domanda.

Annuisco, e mi sento sollevata nel sentire che la considera giГ  la nostra nuova casa.

“E c’è un’ultima sorpresa”, dico. “Ma questa la dovrò conservare per la cena”.

Estraggo il termos dalla cintura e lo metto sulla cappa, fuori dalla sua vista, così che non riesca a vedere cos’è. La vedo che allunga il collo, ma lo nascondo bene.

“Fidati di me”, dico. “È qualcosa di buono”.


*

Non voglio che la casa puzzi di pesce, quindi decido di affrontare il freddo e pulire il salmone all’aperto. Prendo il coltello e mi metto al lavoro sul pesce: lo appoggio su un ceppo e mi metto in ginocchio sulla neve, col salmone accanto. Non so davvero quello che sto facendo, ma ne so abbastanza per capire che non si mangiano testa e coda. Quindi inizio tagliandole via.

Poi intuisco che non si mangiano neanche le pinne, e taglio via anche quelle —né le squame, e cerco di rimuoverle meglio che posso. Dopodiché mi rendo conto che dev’essere aperto per essere mangiato, quindi taglio quanto rimasto esattamente a metà. Si rivela essere bello pieno, rosa dentro, con un sacco di spine. Non so cos’altro fare, e decido che è pronto per essere cucinato.

Prima di rientrare, sento il bisogno di lavarmi le mani. Mi chino, prendo una manciata di neve e mi ci sciacquo le mani; meno male che c’è la neve – di solito devo camminare fino al ruscello più vicino, considerato che non abbiamo acqua corrente. Mi rimetto in piedi, e prima di entrare mi fermo un momento per assicurarmi che qua fuori sia tutto a posto. All’inizio ascolto, come sempre, in cerca di un qualsiasi segno di rumore, o pericolo. Dopo qualche secondo, mi rendo conto che il mondo non può essere più calmo. Finalmente, lentamente, mi rilasso e respiro profondamente: sento i fiocchi di neve sulle guance, mi godo il silenzio perfetto e realizzo quanto sia meraviglioso l’ambiente che mi circonda. I giganteschi pini sono coperti di bianco, la neve cade senza sosta da un cielo violaceo, e il mondo sembra perfetto, come in una favola. Il caminetto risplende dalla finestra e da qui, la nostra casa sembra il posto più accogliente nel mondo.

Torno dentro casa con il pesce e chiudo la porta dietro di me: è una bella sensazione entrare in un posto così ben riscaldato, tutto avvolto dalla morbida luce del fuoco. Bree ha badato bene al fuoco, come sempre, aggiungendo ceppi con sapienza, e adesso è ancora più alto. Sta apparecchiando sul pavimento, accanto al caminetto, con coltelli e forchette prese dalla cucina. Sasha si siede premurosamente accanto a lei, osservando ogni sua mossa.

Porto il pesce sul fuoco. Non so davvero come cucinarlo, quindi decido di tenerlo sul fuoco per un po’, lasciarlo arrostire, girandolo un paio di volte, e sperare che funzioni. Bree mi legge nel pensiero: si dirige immediatamente in cucina e ritorna con un coltello affilato e due lunghi spiedi. Infilza ogni pezzo di pesce, poi prende la sua porzione e la mette sulla fiamma. Seguo il suo esempio. Il senso domestico di Bree è sempre stato superiore al mio e le sono grata per l’aiuto. Siamo sempre state una buona squadra.

Stiamo entrambe in piedi a fissare le fiamme, paralizzate, tenendo il pesce sul fuoco fino a quando non ci fanno male le braccia. L’odore di pesce riempe la stanza, e dopo circa dieci minuti sento una fitta allo stomaco e inizio a sentirmi impaziente per la fame. Decido che il mio è pronto; dopotutto, ci sono persone che a volte mangiano il pesce crudo, quindi quanto può essere cattivo? Bree sembra d’accordo. Così mettiamo le nostre porzioni sui piatti e ci sediamo sul pavimento, una accanto all’altra, con le schiene sul divano e i piedi verso il fuoco.

“Attenta”, l’avverto. “Ci sono ancora un sacco di spine dentro”.

Tolgo le spine e lo stesso fa Bree. Dopo averlo pulito a sufficienza, prendo un pezzetto di carne rosa, calda al tatto, e lo mangio, pronta la peggio.

Devo dire che è buono. Si potrebbe usare del sale o qualche tipo di condimento, ma almeno sembra cotto, e fresco per quello che è possibile. Sento le tanto attese proteine entrarmi in corpo. Anche Bree divora la sua parte, e vedo la sua faccia sollevata. Sasha si siede accanto a lei, la fissa leccandosi le labbra. Bree sceglie un grosso pezzo, toglie con attenzione le spine e lo dà a Sasha, la quale lo mastica intero e l’ingoia, poi si lecca il muso e si rimette a fissare, sperando di averne ancora.

“Sasha, qui”, le dico.

Viene correndo, prendo un pezzetto del mio pesce, tolgo le spine, e glielo do; lo ingoia tutto in pochi secondi. Prima che me ne accorga, il mio pesce è finito – così come quello di Bree – e mi sorprende sentire ancora brontolare il mio stomaco. Vorrei averne preso di più. Tuttavia, questa è stata la più grande cena che abbiamo da settimane e mi sforzo di essere contenta con ciò che abbiamo.

Poi m ricordo della linfa. Scatto in piedi, tolgo il termos dal suo nascondiglio e lo porgo a Bree.

“Vai” sorrido, “il primo sorso è tuo”.

“Che cos’è?” mi chiede, svitandolo e portandoselo al naso. “Non ha l’odore di nient’altro”.

“È linfa di acero”, le dico. “È come acqua zuccherata. Ma meglio”.

Prova a sorseggiarla, poi mi guarda, gli occhi spalancati per la gioia. “È delizioso!” esclama. Fa grandi sorsi, poi si ferma e me lo porge. Non posso fare a meno di dare anch’io grandi sorsate. Sento la botta dello zucchero. Mi piego e ne verso con cura un po’ nella ciotola di Sasha; se lo beve tutto e sembra piacere anche a lei.

Ma sto ancora morendo di fame. In un momento di debolezza, penso al vasetto di marmellata e decido, perché no? Dopotutto, presumo ce ne sia molta altra in quel cottage sulla vetta della montagna – e se abbiamo motivo di festeggiare stasera, allora quando?

Tiro giù il barattolo, lo svito, ci infilo due dita e ne prendo un bel po’. La metto sulla lingua e me la lascio in bocca più che posso prima di inghiottire. È divina. Allungo il resto del vasetto, ancora mezzo pieno, a Bree. “Vai”, le dico, “finiscilo. Ce n’è ancora nella casa nuova”.

Gli occhi di Bree si spalancano mentre allunga la mano. “Sei sicura?” mi chiede. “Non dovremmo conservarla?”

Scuoto la testa. “È ora di trattarsi bene”.

Bree non ha molto bisogno di essere convinta. In pochi secondi, se la mangia tutta, lasciando soltanto un ultimo boccone per Sasha.

Ci stendiamo, appoggiate al divano con i piedi verso il fuoco, e sento il mio corpo che inizia a rilassarsi. Tra il pesce, la linfa e la marmellata, finalmente, lentamente, sento le forze che ritornano. Do un’occhiata a Bree, che si è già appisolata, con la testa di Sasha sul grembo, e nonostante sembri ancora malata, per la prima volta da un pezzo scorgo della speranza nei suoi occhi.

“Ti voglio bene, Brooke”, dice dolcemente.

“Anch’io ti voglio bene”, le rispondo.

Ma il tempo di guardarla, e dorme giГ  profondamente.


*

Bree è stesa sul divano di fronte al fuoco, e io mi seggo adesso sulla sedia accanto a lei; è un’abitudine che ci siamo prese col passare dei mesi. Ogni notte, prima di andare a letto, si rannicchia sul divano, troppo spaventata per addormentarsi da sola nella stanza. Le faccio compagnia, aspettando che si appisola; poi la porterò a letto. La maggior parte delle notti non abbiamo il fuoco, ma ci sediamo lì lo stesso.

Bree ha sempre incubi. Non era ne aveva prima: ricordo il tempo, prima della guerra, in cui si addormentava facilmente. La prendevo in giro, la chiamavo “Bree ora di nanna” visto che si addormentava in macchina, sul divano, leggendo un libro sulla sedia – ovunque. Ma ora non è per niente come prima; adesso rimane sveglia per ore, e quando dorme, è irrequieta. Molte notti sento i suoi piagnucoli o le sue urla attraverso i muri sottili. Come biasimarla? Con l’orrore che abbiamo visto, è stupefacente che non si sia persa del tutto. Troppe notti riesco a malapena a dormire io.

L’aiuta quando leggo per lei. Fortunatamente, quando siamo fuggiti, Bree ha avuto la prontezza di afferrare il suo libro preferito. L’Albero. Glielo leggo ogni notte. Lo conosco perfettamente ormai, e quando sono stanca, a volte chiudo gli occhi e lo recito a memoria. Fortunatamente, è breve.

Mi appoggio alla sedia – sento che mi sto addormentando – giro la copertina logora e comincio a leggere. Sasha è stesa sul divano accanto a Bree, con le orecchie in su, e a volte mi chiedo se anche lei sta ad ascoltare.

“C’era una volta un albero che amava un bambino. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni, raccoglieva le sue foglie e le usava per intrecciare corone con cui giocare al re della foresta”.

Vedo che Bree, sul divano, sta già dormendo profondamente. “Sono sollevata”. Forse è stato il fuoco, forse il pasto. Dormire è ciò di cui ha più bisogno adesso, recuperare forze. Mi tolgo la sciarpa nuova, perfettamente avvolta attorno al collo, e gliel’appoggio delicatamente sul petto. Finalmente, il suo corpicino smette di tremare.

Metto un ultimo ceppo nel fuoco, mi rimetto sulla sedia, mi giro e fisso le fiamme. Le vedo morire lentamente e vorrei avere portato più ceppi. Meglio così. È più sicuro.

Un ceppo crepita e scoppietta mentre lo risistemo: non mi sentivo così rilassata da anni. A volte, dopo che Bree si addormenta, prendo su il mio libro e mi metto a leggere per conto mio. Rimango stesa sul pavimento: Il signore delle Mosche. È l’unico libro che mi è rimasto ed è consumatissimo, sembra avere cent’anni. È una strana esperienza, essere rimasta con un libro solo. Mi rende consapevole di quanto davo per scontato, mi fa rimpiangere i tempi in cui c’erano le biblioteche.

Stasera sono troppo elettrizzata per leggere. La mia mente viaggia, piena di pensieri su domani, sulla nostra nuova vita, in alto sulla montagna. In testa continuo a ripensare a tutte le cose che dovrò portare da qua a là, e a come farlo. Ci sono tutte le nostre cose di base – gli utensili, i fiammiferi, quello che è rimasto delle candele, le coperte, i materassi. Oltre a questo, nessuna di noi ha molti vestiti, e libri a parte, non possediamo sostanzialmente nulla. Questa casa era praticamente spoglia quando siamo arrivate, quindi non ci sono cimeli. Mi piacerebbe portare questo divano e la sedia, anche se avrò bisogno dell’aiuto di Bree per farlo, e dovrò aspettare che lei stia abbastanza bene. Dovremo farlo a fasi, portando prima l’essenziale, e lasciando i mobili alla fine. Ma va bene; fintanto che siamo lassù, protette e sicure. Questa è la cosa più importante.

Inizio a pensare a tutti i modi per rendere quel piccolo cottage ancora più sicuro di com’è. Dovrò certamente trovare un modo di creare delle persiane per le finestre aperte, così da poterle chiudere quando ne avrò bisogno. Mi guardo attorno, mappando la casa in cerca di qualsiasi cosa possa essermi utile. Mi servirebbero dei cardini per fare funzionare le persiane e noto i cardini sulla porta del soggiorno. Forse posso rimuoverli. E una volta che ci sono, forse potrei anche usare la porta di legno, e segarla in pezzi.

PiГ№ mi guardo attorno, piГ№ inizio a realizzare quante cose posso recuperare. Ricordo che papГ  ha lasciato una cassetta degli attrezzi, con sega, martello, cacciavite, e perfino una scatola di chiodi. Г€ una delle cose piГ№ preziose che abbiamo, e prendo nota in mente di portarla su per prima.

Ovviamente, dopo la motocicletta. È il pensiero dominante: quando trasportarla, e come. Non sopporto l’idea di lasciarmela dietro, neanche per un minuto. La porterò su al nostro primo viaggio. Non posso rischiare di accenderla e attrarre tanta attenzione – e poi, il versante della montagna è troppo ripido perché io possa guidarci. Dovrò portarla a piedi, su per la montagna. Posso già immaginare quanto sarà estenuante, soprattutto nella neve. Ma non vedo altri modi. Se Bree non fosse malata, mi potrebbe aiutare, ma nel suo stato attuale non potrà portare niente – temo anzi che potrei dovere portare lei. Mi rendo conto che non abbiamo altra scelta che attendere fino a domani notte, per la copertura del buio, prima di muoverci. Forse sono solo paranoica – le probabilità che qualcuno ci veda sono remote, ma tuttavia, è meglio essere prudenti. Soprattutto perché so che ci sono altri sopravvissuti quassù. Ne sono sicura.

Ricordo il primo giorno che siamo arrivate. Eravamo entrambe terrificate, sole, ed esauste. Quella prima notte siamo entrambe andate a letto affamate, e mi domandavo come avremmo fatto a sopravvivere. Era stato un errore lasciare Manhattan, abbandonare nostra madre, lasciarci dietro tutto ciГІ che conoscevamo?

E poi la nostra prima mattina, mi sono svegliata, ho aperto la porta, e sono rimasta scioccata nel vederla, buttata lì: la carcassa di un cervo morto. All’inizio, ero atterrita. L’avevo presa per una minaccia, un avvertimento, presumendo che qualcuno ci stava dicendo di andarcene, che non eravamo graditi lì. Ma dopo aver superato lo shock iniziale, ho capito non era per niente quello il caso: si trattava di un vero e proprio regalo. Qualcuno, qualche altro superstite, doveva averci visto. Doveva avere visto quanto eravamo disperate, e in un atto di suprema generosità, aveva deciso di darci la sua preda, il nostro primo pasto, carne sufficiente per settimane. Non posso immaginare il valore che deve avere avuto per lui.

Ricordo che mi mise a camminare fuori, perlustrando tutto, su e giù per la montagna, osservando ogni albero, convinta che sarebbe saltato fuori qualcuno a fare ciao con la mano. Ma nessuno l’ha mai fatto. Tutto quello che vedevo erano alberi, e anche se aspettavo diversi minuti, tutto quello che sentivo era silenzio. Ma sapevo, ero sicura, che ero stata osservata. E così mi resi conto che c’erano altre persone quassù, che cercavano di sopravvivere proprio come noi.

Da allora, ho sempre provato un certo orgoglio, ho sentito che eravamo parte di una comunità silenziosa di superstiti isolati che vivono in queste montagne, che badano a sé stessi, senza mai comunicare tra loro per paura di essere visti, per paura di diventare visibili a un mercante di schiavi. Immagino che è così che gli altri sopravvivono fin tanto che ci riescono: senza lasciare niente al caso. All’inizio, non l’avevo capito. Ma ora, l’apprezzo. E da allora in poi, per quanto non veda mai nessuno, non mi sono mai sentita sola.

Ma allo stesso tempo sono anche più vigile; questi altri superstiti, se sono ancora vivi, a questo punto staranno sicuramente morendo di fame e saranno disperati quanto noi. Soprattutto nei mesi invernali. Chi può dire se l’inedia, se il bisogno di difendere le loro famiglie, non abbia spinto alcuni di loro oltre la linea della disperazione, se il loro atteggiamento caritatevole non sia stato sostituito dal puro istinto di sopravvivenza. So che il pensiero di Bree, Sasha e me in preda alla fame a volte mi ha portato a fare pensieri abbastanza disperati. Quindi non lascerò niente al caso. Partiremo di notte.

Che ci sta a pennello, comunque. Mi devo prendere la mattina per risalire lassù, da sola, per perlustrare come prima cosa, per assicurarmi un’ultima volta che nessuno è entrato o uscito. Devo anche andare in quel punto dove ho trovato il cervo e aspettarlo. So che non è facile, ma se riesco a ritrovarlo e ad ucciderlo, ci sfamerà per settimane. Ho sprecato il primo cervo che c’era stato dato, anni fa, perché non sapevo come scuoiarlo, né tagliarlo o conservarlo. L’ho ridotto un macello, e ho provato a farci uscire almeno un pasto prima che l’intera carcassa marcisse. È stato un terribile spreco di cibo, e sono determinata a non rifarlo. Stavolta, specialmente con la neve, troverò un modo per conservarlo.

Infilo la mano in tasca e tiro fuori il coltellino che mi ha dato papà prima di partire; strofino il manico consumato – con le sue iniziali scolpite e decorato con il logo del Corpo dei Marine – come faccio ogni notte da quando siamo arrivate qua. Mi ripeto che è ancora vivo. Perfino dopo tutti questi anni, anche se so che le possibilità di rivederlo sono vicinissime allo zero, non riesco ad abbandonare quest’idea.

Ogni notte desidero che papà non se ne sia mai andato, che non sia proprio mai partito volontario per la guerra. È stato stupido iniziare questa guerra. Non ho mai veramente capito fino in fondo come tutto abbia avuto inizio, e ancora adesso non lo so. Papà me l’ha spiegato, diverse volte, e non l’ho capito lo stesso. Forse era solo per via della mia età. Forse non ero abbastanza grande per capire quanto insensate fossero le cose che gli adulti possono farsi l’un l’altro.

Da come la spiegava mio papà, si trattava di una seconda guerra civile americana – questa volta non tra Nord e Sud, ma tra partiti politici. Tra Democratici e Repubblicani. Diceva che era una guerra che sarebbe durata a lungo. Negli ultimi cent’anni, diceva, la deriva ha portato l’America a diventare una terra divisa in due nazioni: quelli all’estrema destra, e quelli all’estrema sinistra. Col tempo, con le posizioni che si andavano profondamente irrigidendo, è diventata una nazione di opposte ideologie.

Papà diceva che la gente a sinistra, i Democratici, volevano una nazione guidata da un governo sempre più esteso, che alzasse le tasse al 70%, e che fosse coinvolto in ogni aspetto della vita delle persone. Diceva che quelli a destra, i Repubblicani, continuavano a volere un governo sempre più piccolo, che abolisse del tutto le tasse, non mettesse il naso negli affari delle persone, e le lasciasse difendersi per conto proprio. Diceva che col tempo, queste due diverse ideologie, anziché trovare dei compromessi, hanno continuato ad allontanarsi sempre più, estremizzandosi – fino a raggiungere un punto in cui non erano d’accordo su niente.

A peggiorare la situazione, diceva, c’era il fatto che l’America era ormai così affollata, che per qualsiasi politico era diventato più difficile catturare l’attenzione nazionale, e che i politici di entrambi i partiti avevano iniziato a rendersi conto che prendere posizioni estreme era l’unico modo per conquistare spazio mediatico nazionale – ciò che gli serviva per le loro ambizioni personali.

Come risultato, i personaggi di primo piano di entrambi i partiti erano quelli più estremisti, tutti impegnati a scavalcarsi l’un l’altro, a prendere posizioni alle quali in realtà non credevano neanche loro ma che erano costretti a prendere. Naturalmente, quando i due partiti discutevano, potevano soltanto scontrarsi tra loro – e così facevano, con parole sempre più pesanti. All’inizio, erano solo insulti e attacchi personali. Ma col tempo, la guerra verbale si è intensificata. E poi un giorno, ha attraversato il punto di non ritorno.

Un giorno, circa dieci anni fa, arrivò il momento critico fatale quando un leader politico minacciò l’altro usando una parola fatidica: “secessione”. Se i Democratici avessero provato ad alzare le tasse anche di un solo centesimo, il suo partito si sarebbe distaccato e ogni villaggio, ogni città, ogni stato sarebbe stato diviso in due. Non in base alla terra, ma all’ideologia.

Il tempismo non poteva essere peggiore: a quel punto, la nazione era in depressione economica, e c’erano in giro abbastanza persone scontente, stufe di perdere lavoro, per fargli guadagnare popolarità. Ai media erano piaciuti molto gli indici di ascolto che aveva ottenuto, e gli misero a disposizione sempre più spazio. Presto la sua popolarità crebbe. Alla fine, senza nessuno a fermarlo, con i Democratici contrari a compromessi, e con lo slancio del momento a favorirlo, la sua idea si era rafforzata. Il suo partito propose la propria bandiera nazionale e perfino la propria valuta.

Fu il primo punto di svolta. Se qualcuno avesse fatto la voce grossa e l’avesse bloccato allora, tutto quanto poteva essere fermato. Ma nessuno lo fece. E così andò ancora oltre.

Incoraggiato, questo politico propose che la nuova unione avesse anche la propria polizia, i propri tribunali, la propria cavalleria di stato—e le proprie forze armate. Era il secondo punto di svolta.

Se il Presidente Democratico di allora fosse stato un buon leader, avrebbe fermato le cose. Ma peggiorò la situazione facendo una scelta sbagliata dopo l’altra. Anziché provare a calmare la situazione, ad affrontare le ragioni profonde che avevano portato a tale malcontento, decise che l’unico modo per sopprimere quella che chiamava “la Rivolta” era tenere una linea dura: accusò l’intera direzione repubblicana di sedizione. Dichiarò la legge marziale, e nel mezzo della notte, li arrestò tutti.

CiГІ fece precipitare la situazione, e rianimГІ tutto il loro partito. RianimГІ anche metГ  delle forze armate. Le persone erano divise, dentro ogni casa, ogni cittГ , ogni caserma; lentamente, la tensione montava nelle strade, e vicino odiava vicino. Anche le famiglie erano divise.

Una notte, i capi militari fedeli ai Repubblicani seguirono ordini segreti e misero in atto un golpe, facendoli evadere di prigione. La situazione era in stallo. E sui gradini del Campidoglio, venne sparato il primo colpo fatidico. Un giovane soldato pensГІ di avere visto un ufficiale in procinto di estrarre una pistola e sparГІ per primo. Una volta caduto il primo soldato, non ci fu punto di ritorno. La linea finale era stata oltrepassata. Un americano aveva ucciso un americano. Venne fuori uno scontro a fuoco, con dozzine di ufficiali morti. I leader repubblicani furono immediatamente portati in una localitГ  segreta. E da quel momento in poi, le forze armate si spaccarono in due. Il governo si spaccГІ in due. CittГ , villaggi, contee, stati: tutti spaccati in due. Questa venne conosciuta come la Prima Ondata.

Durante i primi giorni, gli specialisti delle crisi e le fazioni del governo tentarono disperatamente di fare pace. Ma era troppo poco, troppo tardi. Niente poteva fermare la tempesta che stava arrivando. Una fazione di generali interventisti prese la situazione in mano, cercando gloria, cercando di essere i primi a fare guerra, cercando il vantaggio della velocità e della sorpresa. Decisero che schiacciare subito l’opposizione era la maniera migliore per mettere fine a tutto questo.

E la guerra ebbe inizio. Seguirono battaglie sul territorio americano. Pittsburgh divenne la nuova Gettysburg, con duecentomila morti in una settimana. Carri armati si mobilitavano contro carri armati. Aerei contro aerei. Ogni giorno, ogni settimana, cresceva la violenza. Le barricate erano state innalzate, le forze armate e la polizia erano divisi, e le battaglie si erano diffuse a ogni stato nella nazione. In qualsiasi posto, ci si combatteva a vicenda, amico contro amico, fratello contro fratello. Si era raggiunto un punto in cui nessuno sapeva più per che cosa si stava lottando. L’intera nazione era cosparsa di sangue, e nessuno sembrava in grado di fermare tutto questo. Questa divenne conosciuta come la Seconda Ondata.

Fino a quel momento, per quanto sanguinosa, si trattava ancora di guerra convenzionale. Ma poi arrivò la Terza Ondata, la peggiore di tutte. Il Presidente, in preda alla disperazione, al lavoro in un bunker segreto, decise che c’era un solo modo per reprimere quella che insisteva a chiamare “la Rivolta”. Convocati i suoi migliori ufficiali militari, questi gli consigliarono di usare ciò che di più potente aveva per reprimere la rivolta una volta per tutte: missili nucleari locali e mirati. Acconsentì.

Il giorno successivo cariche nucleari vennero sganciate sulle roccaforti repubblicane in tutta l’America. Centinaia di migliaia di persone morirono quel giorno, in luoghi come Nevada, Texas, Mississippi. Milioni ne morirono quello dopo.

I Repubblicani risposero. Presero controllo dei propri armamenti, colsero di sorpresa il Norad, e lanciarono le loro cariche nucleari sulle roccaforti democratiche. Stati come il Maine e il New Hampshire vennero sventrati. Nei dieci giorni seguenti, quasi tutta l’America venne distrutta, una città dopo l’altra. Ondate di pura devastazione, e quelli che non vennero uccisi dall’attacco diretto morirono subito dopo per via dell’aria e dell’acqua tossiche. Questione di un mese, e non era rimasto nemmeno nessuno a combattere. Le strade e gli edifici si svuotarono di colpo, visto che le persone erano state messe a combattere contro quelli che prima erano i loro vicini.

Ma papà non ha nemmeno aspettato la leva – è per questo che lo odio. Se n’è andato troppo presto. Era stato ufficiale nel corpo dei marine per vent’anni prima che tutto scoppiasse, e aveva previsto tutto prima di quasi tutti. Ogni volta che guardava le notizie, ogni volta che vedeva due politici urlarsi addosso nelle maniere più irrispettose, alzando la posta di continuo, papà scuoteva la testa e diceva, “Questo porterà alla guerra. Credi a me”.

E aveva ragione. Paradossalmente, papГ  aveva giГ  prestato i suoi anni di servizio ed era andato in pensione dal Corpo anni prima che questo accadesse; ma quando venne sparato quel primo colpo, in quello stesso giorno, si riarruolГІ. Prima si parlava tanto di guerra totale. Г€ stato probabilmente il primo in assoluto ad arruolarsi volontario, per una guerra che ancora non era nemmeno iniziata.

Ed è per questo che ce l’ho ancora con lui. Perché ha dovuto farlo? Perché non ha potuto semplicemente lasciare che tutti gli altri si uccidessero fra loro? Perché non ha potuto rimanere a casa, a proteggerci? Perché gli importava più del suo paese che della sua famiglia?

Ricordo ancora, nitido, il giorno che ci ha lasciate. Quel giorno stavo tornando da scuola, e ancora prima di aprire la porta, sentii urla venire da dentro. Mi tenni pronta. Odiavo quando mamma e papà litigavano, il che succedeva praticamente sempre, e pensai che era un’altra di quelle liti.

Aprii la porta e capii subito che stavolta era diverso. C’era qualcosa di molto, molto sbagliato. Papà era lì in piedi in completa uniforme. Non aveva alcun senso. Non indossava la sua uniforme da anni. Perché ce l’ha addosso adesso?

“Tu non sei un uomo!” Gli gridava mamma. “Tu sei un vigliacco! Lasciare la tua famiglia. Per cosa? Per andare a uccidere persone innocenti?”

La faccia di papГ  divenne rossa, come sempre quando si arrabbiava.

“Non sai di che cosa parli!” gli urlò per risposta. “Faccio il mio dovere per il mio paese. È la cosa giusta da fare”.

“La cosa giusta per chi?” gli ribatté lei. “Non sai neanche per cosa combatti. Per un pugno di stupidi politici?”

“So esattamente per cosa combatto: per tenere la nostra nazione unita”.

“Oh, allora scusami, Mister America!” gli gridò ancora lei. “Puoi giustificarti così nella tua testa, ma la verità è che te ne vai perché non mi sopporti. Perché non ci hai mai saputo fare con la vita domestica. Perché sei troppo stupido per fare qualcosa della tua vita senza il Corpo dei Marine. Così alla prima occasione scatti in piedi e scappi via —”.

PapГ  la interruppe con un pesante schiaffo in faccia. Mi sembra di sentire ancora il rumore.

Ero sconvolta; non gli avevo mai visto alzarle una mano prima. Sentii il vento abbattersi su di me, come se fossi stata schiaffeggiata io. Lo fissai, e quasi non lo riconoscevo. Quello era davvero mio padre? Rimasi così sbalordita che feci cadere il mio libro e questo toccò terra con un tonfo.

Si girarono tutti e due e mi guardarono. Mi girai mortificata e corsi per il corridoio fino in camera mia sbattendo la porta dietro di me. Non sapevo come reagire a tutto quello e dovevo allontanarmi da loro.

Pochi istanti dopo, sento bussare piano alla mia porta.

“Brooke, sono io”, disse papà con voce delicata e piena di rimorso. “Mi dispiace che hai dovuto vedere questo. Per favore, lasciami entrare”.

“Vai via!” gli urlai.

Seguì un lungo silenzio. Ma non se n’era ancora andato.

“Brooke, devo andarmene adesso. Mi piacerebbe vederti un’ultima volta prima che vada. Ti prego. Vieni fuori a salutarmi”.

Mi misi a piangere.

“Vai via!” Gli risposi bruscamente. Ero così sopraffatta, così in collera con lui per avere colpito mamma, e anche di più per starci abbandonando. E nel profondo, avevo paura che non sarebbe mai tornato.

“Sto andando, Brooke” disse. “Non devi per forza aprire la porta. Ma voglio che tu sappia quanto ti voglio bene. E che sarò sempre con te. Ricordati, Brooke, tu sei quella forte. Prenditi cura di questa famiglia. Conto su di te. Prenditi cura di loro”.

Poi sentii i passi di mio padre che si allontanavano. Si facevano sempre più tenui. Pochi istanti dopo sentii la porta d’ingresso aprirsi, e poi chiudersi.

Quindi, il nulla.

Dopo pochi minuti – che sembrarono giorni – aprii lentamente la mia porta. L’avevo già percepito. Se n’era andato. E già me n’ero pentita; avrei voluto salutarlo. Perché me lo sentivo, nel profondo, che non sarebbe mai ritornato.

Mamma stava seduta al tavolo della cucina, con la testa fra le mani, e piangeva sommessamente. Sapevo che le cose erano cambiate definitivamente quel giorno, che niente  sarebbe mai stato lo stesso – che lei non sarebbe mai stata la stessa. E neanch’io.

E avevo ragione. Mentre sto qui seduta a fissare le braci del fuoco morente, gli occhi pesanti, mi rendo conto che, da quel giorno, niente sarebbe mai stato lo stesso, di nuovo.


*

Sono in piedi nel nostro vecchio appartamento, a Manhattan. Non so cosa ci faccio qui, o come ci sono arrivata. Niente sembra avere senso, perché l’appartamento non è affatto come lo ricordo. È del tutto privo di mobili, come se non c’avessimo mai vissuto. Ci sono solo io.

Improvvisamente bussano alla porta, ed entra papà, in completa uniforme, e in mano una ventiquattrore. I suoi occhi sembrano svuotati, come se fosse andato e tornato dall’inferno.

“Papi!” Provo a gridare. Ma le parole non escono. Guardo in basso e mi accorgo che sono incollata al pavimento, nascosta dietro a un muro, e che non può vedermi. Per quanto mi sforzi di liberarmi, correre da lui, urlare il suo nome, non ci riesco. Sono costretta a guardare impotente, mentre entra nell’appartamento vuoto e si osservando attorno.

“Brooke?” urla. “Sei qui? C’è nessuno in casa?”

Provo nuovamente a rispondergli, ma la voce non vuole uscire. Cerca stanza per stanza.

“L’ho detto che sarei tornato” disse. “Perché non mi ha aspettato nessuno?”

Poi, scoppia in lacrime.

Mi spezza il cuore, e provo con tutte le forze a richiamarlo. Ma non importa quanto forte mi sforzi: non esce niente.

Alla fine si gira e lascia l’appartamento, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé. Lo scatto della maniglia riecheggia nel vuoto.

“PAPI!” Urlo, trovando finalmente la voce.

Ma è troppo tardi. So che se n’è andato per sempre, e in qualche modo è tutta colpa mia.

Sbatto le palpebre e sono di nuovo in montagna, nella casa di papГ , seduta sulla sua sedia preferita accanto al fuoco. PapГ  ГЁ seduto sul divano, sporto in avanti, il capo chino, a giocare col suo coltello del Corpo dei Marine. Rimango atterrita nel notare che metГ  della sua faccia ГЁ completamente sciolta, fino alle ossa; riesco praticamente a vedere metГ  del suo teschio.

Guarda verso di me, ho paura.

“Non puoi nasconderti qui per sempre, Brooke”, dice, con tono pacato. “Pensi di essere al sicuro qui.” Ma verranno a cercarti. Prendi Bree e nasconditi”

Si mette in piedi, viene verso di me, mi afferra dalle spalle e mi scuote, mentre i suoi occhi bruciano intensamente. “MI HAI SENTITO, SOLDATO!?” grida.

Scompare, e appena lo fa, tutte le porte e le finestre esplodono in un sol colpo, in una cacofonia di vetri in frantumi.

In casa irrompono una dozzina di mercanti di schiavi, con le pistole in mano. Indossano la loro caratteristica uniforme, nera dalla testa ai piedi, con maschere nere, e corrono a tutti gli angoli della casa. Uno di loro tira Bree giГ№ dal divano e la porta via fra le urla, mentre un altro corre verso di me, affonda le dita sul mio braccio e mi punta la pistola dritto in faccia.

Spara.

Mi sveglio gridando, confusa.

Sento le dita che affondano sul mio braccio, e disorientata tra lo stato di sogno e la realtГ , sono pronta a reagire. Mi osservo in giro e vedo che ГЁ Bree che mi scuote il braccio.

Sono ancora seduta sulla sedia di papГ , e la stanza adesso ГЁ inondata dalla luce del sole. Bree piange a dirotto.

Sbatto gli occhi diverse volte mentre mi siedo, provando a connettermi col mondo. Era stato tutto un sogno? Sembrava così reale.

“Ho fatto un brutto sogno!” Piange Bree, sempre attaccata al mio braccio.

Mi osservo in giro e vedo che il fuoco è finito tempo fa. Vedo l’intensa luce del sole e realizzo che che dev’essere mattina tardi. Non riesco a credere che mi sono addormentata sulla sedia – non l’avevo mai fatto prima.

Scuoto la testa, provando a ripulirla dalle ragnatele. Quel sogno sembrava così reale, è difficile credere che non sia accaduto. Avevo sognato papà prima di adesso, parecchie volte, ma mai niente di tanto realistico. Mi viene difficile concepire che adesso non è più nella stanza con me; controllo di nuovo la stanza, giusto per essere sicura.

Bree mi tira il braccio, inconsolabile. Non l’ho davvero mai vista stare così.

Mi metto in ginocchio e le do un abbraccio. Lei si avvinghia a me.

“Ho sognato che questi uomini cattivi venivano e mi portavano via! E non c’eri tu a salvarmi!” piange Bree sulla mia spalla. “Non andare!” implora sconvolta. “Ti prego, non andare. Non lasciarmi!”.

“Non vado da nessuna parte”, le dico, abbracciandola stretta. “Sshh… È tutto OK… Non c’è niente di cui preoccuparsi. È tutto a posto”.

Ma nel profondo, non posso fare a meno di sentire che non c’è niente a posto. È proprio il contrario. Il sogno che ho fatto mi sta proprio disturbando, e il fatto che anche Bree ha avuto un brutto sogno – e sulla stessa cosa – non mi conforta. Non sono credo particolarmente nei presagi, ma non posso fare a meno di chiedermi se non sia tutto un segno. Non sento però nessun tipo di rumore né altro, e se ci fosse qualcuno nel raggio di un chilometro, lo saprei sicuramente.

Sollevo il mento a Bree e le asciugo le lacrime. “Fa’ un respiro profondo”, le dico.

Bree mi ascolta, e riprende lentamente fiato. Mi sforzo di sorridere. “Guarda”, le dico. “Sono proprio qua. Non c’è niente che non va. È stato solo un brutto sogno. Okay?”.

Lentamente, Bree annuisce.

“Sei solo stanca”, le dico. “E hai la febbre. Per questo hai fatto brutti sogni. Si sistemerà tutto”.

Mentre sto in ginocchio ad abbracciare Bree, mi rendo conto che devo iniziare a muovermi: devo andare a scalare la montagna, a esplorare la nuova casa e a procurarci del cibo. Mi preparo a dirlo a Bree, e sto male al pensiero di come la prenderà. Chiaramente, il mio tempismo non potrebbe essere peggiore. Come faccio adesso a dirle che sto per lasciarla qua? Anche se soltanto per un’ora o due? Una parte di me vuole rimanere qui, tenerla d'occhio tutto il giorno; ma so anche che devo andare, e prima mi sbrigo, più saremo al sicuro. Non posso semplicemente starmene qua tutto il giorno a non fare niente, e aspettare che venga sera. E non posso rischiare di cambiare piano e spostarci durante il giorno solo per via dei nostri brutti sogni.

Scosto un po’ Bree da me, le sposto i capelli dalla faccia, e le sorrido più dolcemente che posso. Cerco la voce più forte e adulta che ho.

“Bree, ho bisogno che tu mi ascolti”, le dico. “Io ora devo uscire, solo per un po’—”

“NO!” esplode Bree con tono lamentoso. “Lo SAPEVO! È proprio come nel mio sogno! Mi stai abbandonando! E non ritornerai”.

Le tengo strette le spalle, provando a consolarla.

“Non è così” le dico con fermezza. “Ho solo bisogno di andare per un’ora o due. Devo assicurarmi che casa nuova sia sicura per poterci trasferire lì stanotte. E devo cacciare, ci serve del cibo. Ti prego, Bree, cerca di capire. Ti porterei con me, ma per il momento sei troppo malata, e hai bisogno di riposare. Sarò di ritorno in poche ore. Promesso. E poi stanotte, ci andremo insieme. E sai qual’è la parte migliore?”.

Ancora piangendo, si volta lentamente verso di me, e infine scuote la testa.

“A partire da stanotte, saremo lassù assieme, sane e salve, e avremo il fuoco ogni notte, e tutto il cibo che vuoi. E posso cacciare e pescare e fare tutto quello che ci serve proprio là, davanti al cottage. Non dovrò lasciarti mai più sola di nuovo.

“E può venire anche Sasha?” chiede tra le lacrime.

“Anche Sasha” le rispondo. Promesso. Ti prego, fidati di me. Tornerò per te. Non ti abbandonerei mai”.

“Lo giuri?” domanda.

Faccio appello a tutta la solennitГ  che ho e la guardo dritto negli occhi.

“Lo giuro”, rispondo.

Il pianto di Bree diminuisce fino a cessare del tutto; sembra soddisfatta.

Mi piange il cuore, ma mi chino alla svelta, le stampo un bacio sulla fronte, poi mi alzo, attraverso la stanza, ed esco dalla porta. So che se rimango un solo secondo in piГ№, non mi deciderГІ mai ad andarmene.

La porta sbatte dietro di me, e io non riesco a scrollarmi di dosso la nauseante impressione che non rivedrГІ piГ№ mia sorella.




TRE


Salgo per la montagna, immersa nell’intensa luce mattutina che riflette sulla neve. È tutto completamente bianco. Il sole splende forte, e la luce è così abbagliate che ci vedo a stento. Farei qualsiasi cosa per un paio di occhiali da sole o un berretto da baseball.

Oggi il vento ГЁ clemente, piГ№ tiepido di ieri, e mentre salgo, sento la neve sciogliersi attorno a me, sgocciolare in piccoli ruscelli e cadere in massa dai rami di pino. La neve ГЁ anche piГ№ soffice, e camminare ГЁ piГ№ facile.

Mi volto nuovamente per controllare, ispeziono la vallata che si estende sotto di me, e noto che con il sole della mattina le strade sono tornate a essere parzialmente visibili. Mi preoccupa, ma subito mi rimprovero: non devo lasciarmi disturbare dai presagi. Devo essere piГ№ forte. PiГ№ razionale, come papГ .

Ho il cappuccio addosso, ma mentre abbasso la testa al vento, che più salgo e più soffia forte, penso che avrei dovuto mettermi la sciarpa nuova. Chiudo le mani, le sfrego – quanto vorrei anche i guanti – e raddoppio la velocità. Sono decisa ad arrivare lì in fretta, perlustrare il cottage, cercare il cervo, e tornare di corsa giù da Bree. Forse recupererò anche qualche altro barattolo di marmellata; il che tirerà Bree su di morale.

Seguo le mie tracce di ieri, ancora visibili nella neve che si scioglie, e questa volta l’escursione è più semplice. Nel giro di circa venti minuti, ho aggirato l’altopiano e sono di nuovo dove mi trovavo il giorno prima.

Sono sicura di essere nello stesso posto di ieri, ma come cerco il cottage e non riesco a trovarlo. È così ben nascosto che, pur sapendo dove guardare, non riesco comunque a vederlo. Inizio a chiedermi se sono nel posto giusto. Proseguo, seguendo le mie impronte, fino a quando arrivo nel punto esatto in cui mi trovavo il giorno prima. Allungo il collo, e finalmente, la vedo. Sono stupita di quanto sia ben nascosta, e ancora più stimolata a vivere qua.

Rimango ferma e mi metto in ascolto. Tutto tace. Si sente solo la neve che gocciola. Esamino con attenzione la neve, alla ricerca di un qualsiasi segno di impronte in entrata o in uscita (a parte le mie) lasciate ieri. Non trovo niente.

Cammino fino alla porta, resto davanti alla casa e faccio un giro a 360: scruto il bosco in tutte le direzioni, controllo gli alberi, cerco anche un minimo segnale di qualcosa che non va, qualsiasi cosa riveli che c'è stato qualcun altro. Rimango ferma per almeno un minuto, in ascolto. Non c’è niente. Assolutamente niente.

Alla fine, sono soddisfatta, sollevata dal fatto che questo posto ГЁ per davvero nostro, e solo nostro.

Tiro la pesante porta, piena zeppa di neve, e un’intensa luce inonda l’interno. Abbasso la testa ed entro, e mi sembra di vederla per la prima volta alla luce. È piccola e confortevole come la ricordavo. Noto che ha una pavimentazione in grandi assi di vero legno, che sembra avere almeno cent’anni. È tranquillo qua dentro. E le piccole finestre aperte su ciascun lato lasciano entrare un bel po’ di luce.

Osservo la stanza alla luce, cercando qualsiasi cosa possa essermi sfuggita – ma non trovo niente. Guardo in giù e trovo la maniglia della botola; mi metto in ginocchio e tiro forte per aprirla. Si solleva in un vortice di polvere che fluttua nella luce del sole.

Scendo la scala, e stavolta, con tutta la luce che viene riflessa, vedo molto meglio quello che c’è qua sotto. Ci saranno centinaia di barattoli. Riconosco molti altri barattoli di marmellata di lamponi, ne afferro due, e me ne metto uno in ogni tasca. Bree impazzirà. E anche Sasha.

Faccio una veloce scansione degli altri barattoli, e scorgo ogni sorta di provviste: sottaceti, pomodori, olive, crauti. Vedo anche un sacco di marmellate diverse, almeno una dozzina di barattoli per ciascuna. Ce ne sono ancora di piГ№, dietro, ma non ho tempo di guardare con attenzione. Il pensiero di Bree si sta facendo sempre piГ№ invadente.

Risalgo la scala, chiudo la porta della botola ed esco dal cottage, chiudendo bene la porta d’ingresso dietro di me. Resto ferma e controllo nuovamente l’ambiente circostante, tenendomi pronta nell'eventualità che qualcuno possa avermi visto. Temo ancora che sia tutto troppo bello per essere vero. Ma ancora una volta, non c’è niente. Forse sono diventata troppo apprensiva.

Procedo verso il posto in cui avevo visto il cervo, una trentina di metri da qui. Come lo raggiungo, tiro fuori il coltello da caccia di papà e me lo tengo di lato. So che è difficile rivederlo, ma forse quest’animale, come me, è un essere abitudinario. Non posso mai essere abbastanza veloce da inseguirlo, né abbastanza svelta per saltargli addosso – e non ho una pistola o qualche vera arma da caccia. Ma una possibilità ce l'ho, ed è il mio coltello. Sono sempre andata orgogliosa della mia abilità di centrare il bersaglio da trenta metri. Tirare il coltello era l’unica delle mie capacità che sembrava impressionare papà – o almeno l'impressionava abbastanza da non provare mai a correggermi o migliorarmi. Al contrario, se ne prendeva merito, dicendo che il talento mi veniva da lui. Anche se in realtà non lanciava un coltello bene neanche la metà di quanto facevo io.

Mi metto in ginocchio nel punto in cui ero prima. Mi nascondo dietro un albero, con lo sguardo verso l’altipiano e il coltello in mano, e aspetto. Intanto prego. Sento solo il suono della neve.

In testa ripasso quello che farò se vedo il cervo: mi alzo lentamente, prendo la mira e lancio il coltello. Prima penso di puntare l’occhio, ma poi decido di mirare alla gola: se lo manco di pochi pollici, ci sarà la possibilità di colpirlo da qualche altra parte. Se le mie mani non sono troppo gelate, e se sono precisa, immagino che forse, forse, riesco a ferirlo. Ma mi rendo conto che sono tutti dei grossi “se”.

I minuti passano. Dieci, venti, trenta…. Il vento va morendo, poi riappare a raffiche, e mentre lo fa, sento leggeri fiocchi di neve dagli alberi soffiano sulla mia faccia. Più il tempo passa, e il freddo aumenta, più m’intirizzisco, e inizio a pensare se non sia stata una cattiva idea. Ma sento un’altra tagliente fitta per la fame, e so che devo provarci. Avrò bisogno di tutte le proteine possibili se voglio cambiare casa – soprattutto se devo spingere la motocicletta in salita.

Dopo quasi un’ora di attesa, sono completamente congelata. Non so se arrendermi o dirigermi giù per la montagna. Magari dovrei ritentare con la pesca.

Decido di alzarmi e fare un giro per riattivare la circolazione degli arti e recuperare sensibilitГ  alle mani; se avessi bisogno di usarle adesso, probabilmente sarebbero inutili. Come mi alzo in piedi, sento ginocchia e schiena rigide farmi male. Mi metto a camminare nelle neve, iniziando con piccoli passi. Sollevo e piego le mie ginocchia, torco la schiena a destra e a sinistra. Rinfilo il coltello nella cintura, poi mi sfrego le mani e ci soffio sopra ripetutamente, tentando di ritrovare sensibilitГ .

All’improvviso, mi blocco. In lontananza, un ramoscello si spezza di colpo, e percepisco il movimento.

Mi giro lentamente. In cima alla salita appare un cervo. Cammina lentamente, passo passo, nella neve, sollevando e poggiando gli zoccoli delicatamente. Abbassa la testa, mastica una foglia, poi con attenzione fa un altro passo in avanti.

Il cuore mi batte elettrizzato. Raramente mi capita di sentire che papà è con me, ma oggi, lo sento. Riesco a sentire la sua voce in testa in questo momento: Piano. Respira lentamente. Non fargli sapere che sei qui. Stai concentrata. Se riesco ad abbattere quest’animale, avremo cibo – cibo vero – per Bree, Sasha e me per almeno una settimana. Ci serve.

Fa un altro paio di passi verso la radura e io ottengo una migliore visuale: è un grosso cervo, e si trova a una trentina di metri. Mi sentirei molto più sicura se fosse stato a dieci metri, o anche venti. Non so se riesco a colpirlo a questa distanza. Se ci fosse stato più caldo, e lui non si stava muovendo, allora sì. Ma ho le mani intorpidite, il cervo si sta muovendo ed è pieno di alberi da quella parte. Non lo so. Quello che so è che se lo manco, non tornerà mai più qui.

Aspetto, lo studio, ho paura di spaventarlo. Vorrei che si avvicinasse di piГ№. Ma non sembra volerlo fare.

Rifletto su cosa fare. Posso attaccarlo, avvicinandomi il piГ№ possibile, e poi lanciare. Ma sarebbe stupido: dopo neanche un metro, scapperebbe di sicuro. Forse dovrei provare ad avvicinarmici furtivamente. Ma dubito che anche questo funzionerebbe. Il minimo rumore, ed ГЁ andato.

E allora rimango qua, a riflettere. Faccio un piccolo passo in avanti, mettendomi in posizione per lanciare il coltello, nel caso dovessi farlo. E quel piccolo passo ГЁ il mio errore.

Un ramoscello si spezza sotto i miei piedi, il cervo solleva immediatamente la testa e si gira verso di me. I nostri sguardi si incrociano. So che mi vede e che ГЁ sul punto di scappare via. Il cuore martella, so che ГЁ la mia sola possibilitГ . La mente ГЁ in blocco.

Poi agisco fulminea. Allungo il braccio, afferro il coltello, faccio un gran passo in avanti, e con tutta la mia bravura, tendo indietro il braccio e lo lancio, mirando alla gola.

Il pesante coltello del Corpo dei Marine di papà gira su sé stesso nell’aria, e prego che non colpisca un albero. Guardarlo roteare, con la luce che riflette, è un momento di vera bellezza. Nello stesso istante, vedo il cervo voltarsi e iniziare a correre.

Sono troppo lontana per vedere esattamente cosa succede, ma un attimo dopo, sono sicura di sentire il suono del coltello che entra nella carne. Il cervo scappa perГІ, e non so dire se ГЁ ferito.

Gli corro dietro. Raggiungo il punto in cui si trovava, e mi sorprende notare una chiara macchia di sangue sulla neve. Sento il cuore battere di speranza.

Seguo la traccia di sangue e corro a piГ№ non posso, saltando sulle rocce. Dopo una cinquantina di metri, lo vedo: eccolo qua, crollato sulla neve, steso sul fianco, con le gambe contratte. Vedo il coltello conficcato nella gola. Esattamente il punto a cui stavo mirando.

Il cervo ГЁ ancora vivo, e non so come porre fine alle sue sofferenze. Lo sento soffrire, e mi sento un mostro. Vorrei dargli una morte veloce ed indolore, ma non so come.

Mi metto in ginocchio ed estraggo il coltello, poi mi piego, e con un movimento rapido, faccio un taglio profondo lungo la gola, sperando che funzioni. Dopo pochi istanti, sgorga fuori il sangue, e alla fine le gambe del cervo smettono di muoversi. Anche i suoi occhi smettono di agitarsi: finalmente so che ГЁ morto.

Mi alzo, con gli occhi fissi in basso e il coltello in mano, e mi sento assalire dal senso di colpa. Mi sento crudele nell’avere ucciso una creatura così bella e indifesa. In questo momento, non riesco a pensare a quanto bisogno avevamo di questo cibo, a quanto sono fortunata ad averlo cacciato. Tutto quello che riesco a pensare è che, soltanto pochi minuti prima, respirava, vivo, davanti a me. E che adesso, è morto. Guardo giù verso il cervo, ancora perfettamente steso sulla neve, e nonostante tutto, mi vergogno.

È questo il momento in cui lo sento per la prima volta. All'inizio lo respingo, presumendo che devo essermelo sognata, perché non è proprio possibile. Ma subito dopo, torna un po’ più forte, più distinto, e so che è reale. Il mio cuore si mette a battere all’impazzata , considerato che riconosco quel rumore. È un rumore che quassù prima ho sentito solo una volta. È il sibilo di un motore. Un motore di automobile.

Rimango lì attonita, troppo gelata anche per muovermi. Il motore si fa più forte, più distinto, e so che può voler dire una cosa sola. Mercanti di schiavi. Nessun altro oserebbe arrivare fin quassù, né avrebbe motivo di farlo.

Parto di scatto, lascio il cervo e mi lancio attraverso gli alberi, oltre il cottage, giГ№ per la discesa. Non sono abbastanza veloce. Penso a Bree, sola a casa, mentre il rumore dei motori si fa sempre piГ№ forte. Provo ad aumentare la velocitГ , scendo di corsa per il pendio nevoso, incespicando, col cuore che mi batte in gola.

Corro così veloce che cado, di faccia, sbucciandomi ginocchio e gomito, e restando senza fiato. Mi rimetto in piedi, e noto il sangue sul ginocchio e sul braccio, ma non m’importa. Mi sforzo e mi rimetto in moto, quindi riprendo a correre.

Scivolando di continuo, raggiungo finalmente l’altopiano: da qui posso vedere tutta la montagna giù fino a casa nostra. Il cuore mi balza in gola: sulla neve ci sono chiare tracce di macchina che portano dritto a casa nostra. La porta d’ingresso è aperta. E, cosa più inquietante di tutte, non sento Sasha abbaiare.

Scendo di corsa, sempre più giù, e nel farlo do una bella occhiata ai due veicoli parcheggiati fuori casa: le auto dei mercanti di schiavi. Tutte nere, a poca altezza da terra, sembrano muscle car alla potenza, con enormi gomme e sbarre ai finestrini. Impresso sui loro cappucci c’è lo stemma dell’Arena Uno, inconfondibile perfino da qui – un diamante con uno sciacallo in mezzo. Sono qui per rifornire l’arena.

Scatto nuovamente giù per la collina. Mi devo alleggerire. Infilo le mani nelle tasche, tiro fuori i barattoli di marmellata e li getto a terra. Sento il vetro rompersi dietro di me, ma non m’importa. Niente importa adesso.

Sono lontana quasi cento metri quando vedo i veicoli partire e iniziare a lasciare casa mia. Ritornano giГ№ per la tortuosa strada di campagna. Voglio scoppiare a piangere appena realizzo quello che ГЁ successo.

In trenta secondi raggiungo la casa, la supero, e corro dritta per la strada, sperando di raggiungerli. So giГ  che la casa ГЁ vuota.

Sono arrivata troppo tardi. Le tracce dell’auto parlano chiaro. Se guardo giù la montagna, riesco a vederli, lontani già mezzo chilometro, e sempre più veloci. È impossibile raggiungerli a piedi.

Ritorno in casa, giusto nel caso in cui, per qualche remota possibilità, Bree fosse riuscita a nascondersi, o l’avessero lasciata. Irrompo dalla porta d’ingresso aperta, e rimango atterrita dalla vista che ho davanti: c’è sangue ovunque. Sul pavimento giace un mercante di schiavi morto, con addosso l’uniforme nera, e il sangue che gli esce dalla gola. Accanto a lui giace Sasha, su un lato, morta. Il sangue le cola di lato da quella che sembra essere una ferita di pallottola. I suoi denti sono ancora conficcati nella gola del cadavere. È chiaro cos'è successo: Sasha deve avere provato a proteggere Bree, scagliandosi contro l’uomo non appena questo è entrato e azzannandolo alla gola. Gli altri devono averle sparato. Ma ancora non mollava.

Corro per tutta la casa, stanza per stanza, urlo il nome di Bree e sento la disperazione della mia voce. Г€ una voce che non riconosco piГ№: ГЁ la voce di una pazza.

Ma tutte le porte sono spalancate e non c’è niente di vuoto.

I mercanti di schiavi hanno preso mia sorella.




QUATTRO


Mi trovo nel soggiorno di mio papГ , in stato di shock. Avevo sempre temuto che questo giorno arrivasse; ma anche adesso che ГЁ successo, stento a crederci. Sono sopraffatta dalla colpa. Ci ha tradito il fuoco della scorsa notte? Hanno visto il fumo? PerchГ© non sono stata piГ№ prudente?

Ce l'ho con me stessa anche per aver lasciato Bree sola stamattina – soprattutto dopo che entrambe avevamo fatto dei sogni così brutti. Rivedo la sua faccia, in lacrime, che mi supplica di non lasciarla. Perché non l’ho ascoltata? E ho seguito il mio istinto? Ripensandoci, non posso fare a meno di ricordare che papà mi aveva messo bene in guardia. Perché non ci ho dato peso?

Niente di tutto questo ha importanza adesso: mi fermo giusto un attimo. Sono in modalità da combattimento, e non ho alcuna intenzione di arrendermi e lasciarla andare. Sto già correndo per la casa così non perdo tempo prezioso per inseguire i mercanti di schiavi e salvare Bree.

Corro verso il corpo del mercante di schiavi e lo esamino rapidamente: indossa la tipica uniforme militare, anfibi neri, tenuta da corvée, e camicia nera a maniche lunghe coperta da un bomber nero attillato. Ha ancora addosso la maschera nera con le insegne dell’Arena Uno – il marchio di riconoscimento di un mercante di schiavi – e indossa pure un piccolo casco nero. Non gli è stato di grande aiuto: Sasha ha trovato lo stesso il modo di conficcargli i denti in gola. Butto gli occhi verso Sasha e sento mancarmi il respiro. Le sono davvero riconoscente per la difesa che ha opposto. Mi sento in colpa per aver lasciato da sola anche lei. Lancio uno sguardo al suo corpo, e giuro a me stessa che dopo aver recuperato Bree, tornerò e le darò una degna sepoltura.




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